Ticketless – Una ferita italiana

L’attentato alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982 è ritornato al centro della nostra attenzione; si è ripreso a discutere, finalmente, con il distacco necessario per chi s’occupa di storia, ma al tempo stesso con la passione che richiede una ferita non ancora cicatrizzata. L’odio e il rancore non portano lontano nella ricostruzione del contesto politico di quelle settimane. Giuntina ha pubblicato un libro toccante di Gadiel Gaj Taché. L’editore Belforte propone adesso un dossier di documenti. Il libro, a cura di Massimiliano Boni e Roberto Coen, s’inserisce sul solco aperto dal volume di Schwarz e Marzano (Viella), richiamato opportunamente da David Bidussa su questo portale. Il rinnovato interesse non può che fare bene all’ebraismo italiano: quanto è accaduto quel giorno ha segnato l’esperienza di ognuno di noi, come già mi è capitato di osservare. La lettura dei documenti raccolti da Boni e Coen mi ha indotto a scrivere per questo libro una breve prefazione, dove ho cercato di mettere l’accento su alcuni nodi insoluti che ritengo opportuno richiamare qui.
The Jews of Italy di Arnaldo Momigliano uscì circa tre anni dopo l’attentato. Era un meraviglioso affresco di storia della presenza ebraica attraverso i secoli, nato da una relazione ad un convegno in memoria di Vito Volterra, grande matematico da poco commemorato ai Lincei. Le dimensioni di quel saggio erano tali da rendere possibile la pubblicazione in una rivista di recensioni come “New York Rewiew of Books” e così larghissima fu la circolazione di quelle memorabili pagine. In quell’agile excursus, un volo entusiasmante sopra duemila anni di storia ebraica globale, Momigliano, sul finale, non poteva evitare una conclusione amara:

Sarebbe follia concludere su una nota di ottimismo quando accade che un bambino ebreo possa essere assassinato nella sinagoga di Roma, come avvenne nel 1982, senza che si manifesti un sollevamento dell’opinione pubblica. Mi tornano alla mente le parole di Nahman Bialik sull’assassinio dei bambini, ma non le ripeterò. E a differenza di Immanuel di Roma, il nostro vecchio amico che, se non era amico di Dante, lo era almeno di Cino da Pistoia, non ho intenzione di dare alcun consiglio al Messia. E pertanto io non dirò «Ma se hai intenzione di cavalcare un asino, mio Signore, tornatene a dormire».

Sette densissime righe: un’enormità nell’economia di quel saggio, il doppio dello spazio riservato alla storia di Venezia dalle colorate sinagoghe, il triplo rispetto all’illuminismo ebraico o alla storiografia tedesca! Parole così diverse dalle altre: diverse nel suono e nella tonalità, che assomiglia a un urlo. Posso sbagliare, ma non ricordo altri luoghi nella immensa sua opera, dove Momigliano ricorra a toni così accesi e faccia uso – due volte di seguito e in quel modo -, alla tecnica della preterizione.
Non ripeterò le parole di Bialik. Nel 1903, quando gli ebrei di Kishinev vennero colpiti dall’orrendo pogrom favorito dalla polizia zarista, il poeta Chaiyym Nachman Bialik (1873-1934) visitò le strade e le case ancora grondanti di sangue e scrisse di getto il suo poema yiddish In Shchite-Stot, reso in ebraico in versione parzialmente differente con Be-‘Ir ha-haregah (Nella Città del Massacro). Non ripeterò quelle parole, incalza Momigliano alludendo al piccolo Stefano Taché. E di seguito: Non mi rivolgerò come Immanuel di Roma direttamente al Signore per manifestare la mia ira, incalza.
Quando lessi il saggio rimasi sbalordito. Per quello che stavo leggendo, ma anche per un timore, poi rivelatosi fondato. Mi domandai quanti fra i moltissimi lettori di The Jews of Italy avrebbero posto attenzione a quel doppio Non dirò. Non mi sbagliavo.
Eppure, nel 1985, il contesto politico stava mutando. Lentamente, qualche cosa di nuovo si affacciava all’orizzonte. Nelle ripetute crisi mediorientali succedutesi al 1982, non si ascolteranno più reazioni smodate come si erano ascoltate nelle interminabili settimane che vanno dalla strage di Sabra e Chatila all’attentato nel quale morì il piccolo Stefano Taché. Di quel clima orrido, delle divisioni che spaccarono anche il mondo ebraico italiano, il volume di Boni e Coen offre varie testimonianze, una più interessante dell’altra, che oggi rinnovano la sofferenza di chi non ha dimenticato quei giorni.
Il 1989 porrà la parola fine a quella stagione. Scrive nel libro Manuel Gotor, lo storico che per primo s’è avvicinato a quelle vicende con animo distaccato e costruttivo, A proposito di quello che impropriamente si suole definire Lodo Moro e non invece, suggerisce Gotor, “lodo di intelligence con i palestinesi” sappiamo che le prime tracce finora conosciute, recuperate tra le carte del ministro Paolo Emilio Taviani, risalgono al dicembre 1972, quando Moro non era neppure al governo e presidente del Consiglio era Giulio Andreotti. Scrive Gotor nel libro di Boni-Coen:
La sostanza di questo lodo prevedeva, a tutela del supremo interesse nazionale, la salvaguardia del territorio italiano da attentati di matrice palestinese in cambio di un doppio salvacondotto: di tipo giudiziario, nel caso in cui fossero stati arrestati in Italia dei militanti della causa palestinese nell’atto di compiere attentati contro obiettivi israeliani, e di tipo commerciale, consentendo il transito nella penisola di armi provenienti dal nord Europa e la conservazione sul territorio nazionale di depositi di armi per conto dei palestinesi. Il tutto si è svolto sul filo teso nell’antro della ragion di Stato, un luogo, che è anche una dimensione, in cui Stato e anti-stato, poteri formali e poteri informali possono incontrarsi. […] Ad assicurare la prima funzione del lodo si prestarono selezionati vertici della magistratura, in deroga al principio costituzionalmente garantito dell’obbligatorietà dell’azione penale, all’applicazione della seconda funzione si adoperarono indifferentemente sia organizzazioni neo-fasciste sia le sigle del cosiddetto “Partito armato”, vale a dire le Brigate Rosse e l’area di Autonomia operaia. Per motivare questa dimensione “commerciale” degli accordi si sono mescolati, come spesso capita nella vita degli uomini, interessi di tipo economico e militare (le armi, naturalmente, servono a chi fa la lotta armata) con convincimenti ideologici e valoriali a favore della causa palestinese. I vertici dei servizi italiani, a cui spettava la gestione del lodo d’intelligence, erano, ovviamente, a conoscenza di queste attività di facilitazione, di custodia e di protezione che hanno consentito l’effettiva applicazione e il buon funzionamento degli accordi con i palestinesi, ma anche la possibilità di controllare la qualità e l’intensità degli armamenti introdotti e presenti sul territorio italiano. Ciò contribuisce a spiegare, per quale ragione essa sia stata coperta dal segreto di Stato fino al 2014.

Quella stagione aveva avuto il suo culmine nel 1978 con il rapimento Moro, ma negli anni Ottanta, per varie ragioni andava mutando il contesto: si attenuava, sia pure lentamente, il consenso intorno al tema della violenza terroristica. Per chi come me giungeva all’età adulta in quei tormentati anni Settanta, di cui parla Gotor, la primavera-estate 1982 rappresenta uno spartiacque. Si chiudeva un sanguinoso periodo di lotte politiche, pieno di angoscia e di sgomento, che avremmo voluto tutti rimuovere. Dopo che è stata tolta la copertura del segreto di Stato e dopo che sono state rese pubbliche alcune immagini degli istanti che immediatamente seguono l’attentato, con quel vigile urbano di Roma che tiene in mano il corpicino del piccolo Stefano sono state rese pubbliche Scatti di fotografo che, adesso, s’accompagnano al coro di voci dei testimoni, di chi quel giorno era presente. Rifletterci oggi significa renovare dolorem.
Nel libro Attentato alla sinagoga – Roma 9 ottobre 1982, Arturo Marzano e Guri Schwarz hanno affrontato per la prima volta, il tema del ruolo dell’Italia nel conflitto mediorientale e della posizione del nostro Paese rispetto ad Israele e alla questione palestinese negli anni fra il 1967 e la guerra del Libano. Tuttavia, gli autori, pur bravissimi, sono troppo giovani per ricordare quel clima infuocato, quelle vignette torve, quegli attacchi immotivati, quel dibattito serrato dove crollavano ad uno ad uno i miti della nostra giovinezza: Eugenio Scalfari, Rossana Rossanda tra i tanti. Nello scrittore Primo Levi, che in quelle settimane sottoscriveva il contestatissimo appello di intellettuali ebrei, ma al tempo stesso vedeva il suo romanzo storico sulla Resistenza ebraica e il sionismo socialista Se non ora, quando? schiacciato e strumentalizzato da polemiche certo poco letterarie, i mesi che vanno dalla tarda primavera all’ottobre 1982 segnano una svolta: si può dire, con buona approssimazione, che da quel trauma sia nato il desiderio d’iniziare a scrivere quello che sarà il suo ultimo libro, I sommersi e i salvati.
Come dicevo, di quella stagione che concludeva gli anni del terrorismo, l’attentato rappresenta un punto di svolta, che è anche un punto di arresto.
Negli anni successivi qualche cosa inizia a cambiare. Momigliano viveva lontano dall’Italia e nel 1985, quando scriverà quelle righe piene di ira, non aveva percezione del mutamento. Con il passare degli anni, le notizie che giungeranno dal Medio Oriente non saranno buone, ma non genereranno più il turbine di veleni e di slogans del 1982. A che cosa si debba il mutamento è difficile dire. Certo, il crollo del muro di Berlino avrà la sua parte, per Israele e così per la memoria dell’antisemitismo fascista. Una parte non piccola credo abbia avuto la prima conoscenza della letteratura israeliana. Più tardi, il cinema, il giovane cinema israeliano e la generazione dei cosiddetti “nuovi storici”. La società israeliana prima ignorata o mal conosciuta sarà per la prima volta osservata con oggettività dalla prima circolazione dei primi libri di A. B. Yehoshua, Amos Oz e poi David Grossmann. Yehoshua fece da battistrada.
I fatti accaduti in quei giorni non devono tuttavia indurre soltanto al dolore e all’indignazione. Come mi è capitato di scrivere per altre stagioni inquietanti della storia d’Italia, l’estate 1982, nella tragedia, contiene elementi capaci di rinforzare una visione positiva della storia, prese di posizione che rincuorano. Vorrei concludere queste note con una osservazione positiva. Ritengo sia sempre bene uscire dalla cupezza, guardare con serenità al futuro, auspicando che quei giorni terribili rimangano un brutto ricordo nella nostra memoria. Meriterebbero per esempio di essere riascoltate per intero, le voci dei dissenzienti.
Tre nomi fra gli altri, vanno fatti qui perché li ritroviamo in questo volume in uscita. Una memoria grata va a quanto scrissero: Alberto Arbasino, Anna Rossi Doria contro Rossanda e Scalfari e infine la stessa Silvia Berti, curatrice delle Pagine ebraiche di Momigliano in una lettera al “Corriere della Sera” contro un poco commendevole discorso di Luciano Lama.
Per la storia famigliare che avevano alle spalle, la reazione di Berti e Rossi-Doria ci è chiara. Meno chiaro al lettore di questo libro potrà sembrare l’orientamento cattaneano-mazziniano di Arbasino, il quale rimane pur sempre, e non soltanto, l’inventore della “casalinga di Voghera”, ma anche il discendente diretto di quei fratelli Luigi ed Eligio Arbasino, docenti al Liceo Grattoni di Voghera, maestri di una generazione di ribelli mazziniani e democratici del tardo Ottocento, non insensibili al sionismo nascente. Il Gabinetto Vieusseux apre in questi giorni una Sala Arbasino, una Royal Albert Hall si è detto scherzosamente. Bisognerebbe avere il coraggio di esplorare le terre incognite e non accontentarsi del già detto, ma anche per non lasciarsi trascinare dal pessimismo o dal vuoto rancore.
Non era semplice tenere insieme un groviglio di problemi come quelli che ho appena indicato. Data la quantità di riferimenti, anche figurativi, lo stereotipo della vittima che si trasformava in carnefice finì in quei giorni per riassorbire tutto, divenne un copione adatto all’uso, fino a rimuovere del tutto la morte di un innocente. I libri e i reportages che leggiamo in questi giorni aiutano a fare luce, pur nella loro diversità. “Il piccolo escluso”, il bambino, con il carico di emozioni che la sua morte avrebbe dovuto evocare è stato per troppi anni escluso dal nostro sguardo. Il fervore di iniziative editoriali di questi giorni si presenta come un atto di riparazione, ma non va dimenticato che molta strada ancora sarà necessario percorrere, senza ira né rancore, ma per amore della verità.

Alberto Cavaglion