Machshevet Israel
Pilpul sul pilpul
Riabilitiamo il pilpul, senza il quale lo studio delle fonti ebraiche è senza sapore. Un po’ di pepe ci vuole, almeno ‘quanto basta’. Partiamo dal Talmud, trattato Shabbat, pagina 31a, famosa per i diversi approcci e le diverse risposte date da Shammai e Hillel al proselito che voleva o diceva di voler convertirsi al giudaismo a patto che gli insegnassero la Torà mentre stava su un piede solo, vale a dire in forma succinta e sintetica. Ma ivi è riportata anche una riflessione escatologica, sul giudizio individuale, di un amorà babilonese di IV generazione (prima metà del IV secolo e.c.), Ravà, il quale insegnava: “Quando una persona è introdotta al cospetto del tribunale celeste, le viene chiesto: hai svolto il tuo lavoro con onestà? Hai fissato un tempo per lo studio della Torà? Hai procreato [mettendo al mondo figli e/o figlie]? Hai atteso la redenzione? Hai fatto pilpul sulla sapienza, cercando di comprendere una cosa in rapporto a un’altra? Ma, quand’anche sarà trovato perfetto in tutte queste cose, se avrà avuto timore del Signore, bene; altrimenti no!”.
Questa lista di domande è un evidente climax: la prima, basilare, concerne la moralità quotidiana circa il modo con cui ci guadagniamo da vivere, l’onestà spicciola nelle nostre attività lavorative. Solo su questa base etica si può costruire una specificità ebraica, fondata sul limmud, lo studio sistematico – non ‘quando capita capita’ – della Torà (scritta e orale). Segue, su una stabile base economico-morale e una solida formazione ebraica, il metter su famiglia onde procreare, secondo il primo e universale precetto che risuona nella Torà. In tutto ciò è bene il mai disperare nella yeshu‘à, nella salvazione… Fin qui tutto sembra lineare e chiaro. Ma ecco che, al vertice delle domande, viene chiesto se abbiamo fatto pilpul! In ebraico il testo è chiarissimo: “pilpalta be-chokhmà?”. Compare proprio la parola pilpul, che da qualche secolo non gode buona reputazione, a volte persino in alcune yeshivot. Cosa indica dunque questo termine, che si trova già nel Talmud? E come andrebbe tradotto in italiano: dialettica o controversia o discussione animata? Oppure, arte di spaccare il capello in quattro? Modo logico, rigoroso di ragionare e argomentare (infatti poi si insiste sulla capacità di dedurre una cosa dall’interno di un’altra)? Chi non ama questo metodo di studio e di approfondimento della sapienza, la chokhmà, potrebbe tradurre pilpul con eristica, la polemica verbale fine a se stessa tipica dei sofisti greci, che già Platone disprezzava in quanto interessati non alla verità ma solo a ottenere consenso con abilità retoriche…
Meglio forse attenerci al termine ebraico, dato che pilpul indica tecnicamente una modalità specifica di studio del Talmud tesa a evidenziare i punti deboli dell’argomento avverso e a portare prove testuali o logiche più probanti a sostegno della propria tesi. Se così, il pilpul non solo non è eristica ma ne costituisce l’antitesi: una via rigorosa per smascherare falsi argomenti, costrutti meramente retorici o solo pochezza nonché deficit di pensiero dietro o attorno a una decisione (o a una indecisione). Nel trattato Shabbat Ravà evidentemente lo ritiene un valore importante, l’ultimo gradino verso la chokhmà. Un talmid chakham privo di questa abilità non sarebbe neppure tale. Non basta conoscere il Tanakh e il Talmud se non si sa praticare il pilpul. Vero è che quest’arte, detta anche chiluqim o ‘discussioni sottili’, spinse alcuni a inseguire un mero sfoggio di acume intellettuale al limite del parossismo, così eccessivo nel groviglio logico da perdere di vista lo scopo, la sostanza, la decisione stessa ossia l’azione a cui lo studio dovrebbe portare. Tali degenerazioni vennero stigmatizzate e condannate da grandi chakhamim come il Maharal di Praga nel XVI secolo e il Gaon di Vilna due secoli dopo. Eppure, senza pilpul non c’è gusto a studiare, come lo studio non avrebbe senso se non si cercasse di far scaturire chiddushim, cose nuove, dai testi studiati. Persino il codice mishnico fu ‘forzato’ e ‘aperto’ dagli amoraim, sia in eretz Israel sia in Bavel. La scuola lituana del Brisker Rebbe, rav Chayim Soloveitchik (nonno del più noto rav Joseph B. Soloveitchik) fu un percorso teso a salvare il meglio della pilpulistica, non certo volto ad abolire il pilpul, e proprio nel solco dell’attenzione filologica e storica introdotta dal Gaon di Vilna.
E con ciò, anche il miglior chakham, onesto e prolifico e abile nel disquisire le fonti, è ben poca cosa se privo del timor d’Iddio, dell’irat haShem. Ravà è stato tra i primi a denunciare: senza corretta motivazione interiore, senza la sapienza del cuore con le sue middot o virtù, senza contezza di chi davvero siamo, anche la più grande chokhmà vale ben poco. Questa consapevolezza, che supera persino la moralità e che fa la qualità spirituale di una vita pur onesta e impegnata, è l’obiettivo del musar, termine che non può essere reso solo con ‘moralità’ o ‘etica religiosa’. Forzato a scegliere, lo tradurrei come ‘scienza del temere Iddio benedetto, nonostante tutto’. Sof sof è quel che dice Qohelet: dopo aver tutto considerato e discusso, ossia solo dopo aver fatto molto pilpul…
Massimo Giuliani, università di Trento
(13 ottobre 2022)