Dalle pareti entrò il mondo
Si racconta che in occasione della nascita di suo nipote nei giorni di Sukkot, Rabbi Shammai, dotato improvvisamente di una forza senza eguali, scoperchiò il tetto della stanza della partoriente e con grande cura e pazienza ne fece uno nuovo fatto di fronde, fiori e frutta, affinché il neonato potesse anche lui gioire della festa, contemplando la volta del cielo e le stelle (Limentani, Schaumann 1996).
Non tutti hanno la fortuna di nascere sotto una sukkah, ma di certo possono godere dei suoi spazi per alcuni giorni all’anno. Nella sukkah si mangia, si beve, si gioca, si parla, ci si riunisce. Il precetto vuole che si passi al suo interno più tempo possibile, e che la si abiti con allegria.
Quale occasione migliore, dunque, di una festa comunitaria così gioiosa, che ricollega i nostri spazi alla natura in un modo così tipicamente infantile (i bambini sono i più grandi costruttori di capanne), per avvicinare i bambini al mondo ebraico, ai suoi rituali e alle sue ricorrenze?
Questo contributo vuole esplorare i temi principali che possono essere affrontati, in ambito didattico, in occasione di Sukkot, offrendo spunti sia teorici che pratici per avvicinare i bambini a un patrimonio culturale e religioso spesso ancora poco conosciuto.
Ricordo distintamente, in occasione di un laboratorio tenutosi sotto la sukkah del MEIS nel settembre del 2021, le esclamazioni di stupore e la curiosità dei bambini: che cos’è questa costruzione? Perché ci sono dei frutti appesi? Perché alcuni lati sono aperti? Chi abita qui? Il fascino che una sukkah può esercitare su chi non l’ha mai vista, e in particolare su un bambino, è straordinario.
Eppure i bambini conoscono bene l’arte di costruire capanne, tane e nascondigli. Nella letteratura per l’infanzia l’esempio più celebre è quello della tana, essenziale e precaria, costruita da Max, il bambino protagonista dell’albo Nel paese dei mostri selvaggi (Sendak 2018): una corda costituita da un insieme di fazzoletti legati tra loro, un lenzuolo sistemato a mo’ di tenda.
Il testo che accompagna questa immagine dice: “Quella sera Max indossò il costume da lupo e ne combinò una delle sue”.
Vestito da lupo, Max rifiuta l’addomesticamento, gli spazi abitabili e confortevoli della sua casa, e cerca nella tana la selvatichezza.
Le tane che i bambini amano così tanto costruire rispondono forse a un bisogno essenziale, primitivo, che ci ricollega alla nostra animalità: la tana è uno spazio piccolo, protetto, a cui poter tornare nel momento del bisogno. È il confine da cui poter cominciare a sperimentare, a piccoli passi, la libertà. È il luogo segreto e prezioso in cui si invitano gli amici speciali. Non entra chiunque nella tana, ma solo chi ha il permesso, chi merita la nostra fiducia.
In questo senso, quindi, la tana rappresenta un prolungamento del bambino e del suo corpo, un’estensione fisica di un bisogno interiore che è quello di rifugiarsi e sentirsi protetti. Nella storia di Sendak, infatti, il paesaggio cambia in funzione dei mutamenti emotivi del bambino. Quando Max viene chiuso nella sua camera, in punizione, questa si trasforma in una foresta che “crebbe, crebbe finché il soffitto si coprì di rami e dalle pareti entrò il mondo”.
Più il mondo adulto circostante si oppone con regole e giudizi al gioco del bambino, più quest’ultimo ritrova, nel selvatico, il suo posto.
La sukkah non è dissimile alla camera di Max: con il suo tetto di rami e foglie e i suoi frutti appesi ci riconnette alla natura, ci ricorda – si potrebbe dire – da dove veniamo; con la sua parete aperta lascia, anche lei, entrare il mondo.
La dimensione della naturalezza, e quindi dell’essenzialità in contrapposizione alla mondanità, è centrale nella festa di Sukkot, una festa in primo luogo agricola, in cui ringraziamo Dio per i doni della natura, da cui dipendiamo in quanto esseri viventi.
Vivere nella sukkah significa rinunciare alle comodità del nostro quotidiano, all’accumulo di beni materiali, e accorgersi di ciò che profondamente ci nutre. Nella sukkah celebriamo la natura spogliandoci di ciò che è in più, che non ci serve.
Questo aspetto può portarci a introdurre, con i bambini, il tema della casa. Proviamo a chiedere ai bambini qual è, secondo loro, la definizione di casa. Gli spunti che emergono sono molteplici: casa può essere uno spazio organizzato in un certo modo (con un certo numero di stanze eccetera), il luogo dove rispondiamo alle nostre funzioni di base (a casa si mangia, si dorme eccetera), il luogo dove abitano le persone più importanti per noi (mamma, papà eccetera), il luogo dove ci sentiamo al sicuro.
Un brainstorming iniziale sarà sufficiente per far emergere la complessità che si nasconde dietro alla semplice parola. Da qui possiamo proporre ai bambini di esplorare le numerose forme dell’abitare esistenti, intraprendendo un vero e proprio viaggio nel domestico, umano e animale.
Esistono diversi albi illustrati che possono aprire la via a questa esplorazione, albi in cui gli spazi domestici sono tanti e diversi, reali e immaginari, rispecchiando così la complessità che già emergeva nelle intuizioni iniziali dei bambini.
Un riferimento a parte va all’albo La casa più grande del mondo (Lionni 2008), in cui una piccola lumaca ascolta la storia della lumaca che aveva voluto trasformare il suo guscio nella “casa più grande del mondo”, facendolo crescere a dismisura fino a farlo diventare “grande come un melone”. Tuttavia, una casa così grande, con il suo enorme peso, la condanna per sempre all’immobilità e, alla fine, alla morte.
Con questa storia possiamo introdurre il tema delle case mobili: nomadismo e migrazione, fenomeni che appartengono sia al mondo animale che al mondo umano.
Anche chi non è stanziale “cerca” casa: la lumaca ha la sua casa in se stessa, e la porta con sé dovunque vada; gli uccelli migratori fanno casa in luoghi lontani per poi tornare al loro nido; i popoli nomadi vivono in dimore temporanee, facilmente trasportabili.
Festeggiando Sukkot, vogliamo ricordare proprio un abitare temporaneo, frugale, precario, che caratterizzò la vita nel deserto degli ebrei fuggiti dall’Egitto i quali, per lungo tempo, vissero in semplici capanne.
A partire dall’immagine della sukkah come di una casa “iper essenziale”, possiamo tornare a chiederci: cosa fa di un luogo casa? Di cosa abbiamo bisogno per sentirci a casa?
Ecco allora che i bambini rispondono: di noi stessi, degli altri a cui vogliamo bene. In sostanza, di legami.
La sukkah è un luogo aperto, comunitario. Essa è costruita per essere abitata da una collettività.
I popoli viaggiatori, così come le specie migratorie, non intraprendono il loro viaggio in solitario. Casa è casa se si sta insieme.
Possiamo quindi proporre ai bambini, offrendo loro la sagoma di una casa vuota e bianca, di scrivere o disegnare che cosa ci vuole in un luogo perché si sentano a casa.
Oppure possiamo chiedere loro, raccontando la tradizione secondo cui ogni notte sarà accolto nella sukkah uno dei sette pastori di Israele, chi sarebbero felici di ospitare nella loro casa e di pensare a come lo accoglierebbero.
Infine, per coltivare il pensiero creativo, prendendo ispirazione dal progetto Sukkah Village (Princeton, New Jersey), in cui architetti professionisti e studenti immaginano e costruiscono avveniristiche sukkot, possiamo guidare i bambini nel processo di design di capanne che siano adatte a diversi climi e contesti.
E chissà che questi progetti un giorno non diventino realtà e che magari qualcuno abbia la fortuna, come il nipote di Rabbi Shammai, di nascere sotto a un tetto di fronde e frutti, con lo sguardo rivolto al cielo.
Sara Gomel
Brano dal catalogo della mostra del Meis “Sotto lo stesso cielo”