L’intervista a Giacomo Saban
“Il mio Mediterraneo,
da Istanbul a Roma”

I suoi antenati si stabilirono in Turchia nel 1492, dopo la cacciata degli ebrei dalla Spagna. In fuga da Maiorca giunsero a Bursa, in Anatolia. E da lì si approdarono a Istanbul dove si costruirono una solida posizione in campo imprenditoriale. Tanto da edificarsi una dimora proprio in fronte al palazzo del governatore, in una delle vie più belle dalla città. Giacomo Saban, matematico e appassionato di storia ebraica, uno degli esponenti più illustri dell’ebraismo italiano, arriva da qui. Dalla luce accecante che spazza il Bosforo nelle giornate di sole, da un mare sempre affollato di navi che evocano orizzonti lontani, da una capitale imperiale in cui popoli, culture e nazionalità a lungo si fusero in un mirabile melting pot che parlava un’infinita costellazione di lingue e dialetti. Da un’attitudine aperta e cosmopolita e da un uso del mondo per cui è del tutto naturale che a Rosh haShanah il rabbino riceva la visita delle massime autorità religiose e la ricambi poi in altre occasioni nella monumentale basilica di Santa Sofia, cuore simbolico di Istanbul. È dunque un destino straordinario e per certi versi inevitabile a condurre il professor Saban in Italia verso un appuntamento che segnerà uno spartiacque per il mondo ebraico italiano e lo vedrà ricevere per la prima volta la visita di un pontefice nella sinagoga di Roma. È infatti lui, ebreo di origini turche, ad accogliere in veste di presidente della Comunità ebraica di Roma, lo storico appuntamento che nel 1986 porta papa Giovanni Paolo II al Tempio maggiore aprendo una nuova stagione di rapporti tra il mondo ebraico e quello cattolico. Ed è lui a pronunciare in quell’occasione un discorso dai toni pacati e decisi, nutrito di una consapevolezza della storia possibile forse solo a chi è nato e cresciuto in un mondo diverso. Giacomo Saban racconta la sua traiettoria di vita con garbo sommesso e l’abitudine educata a sfumare ogni esagerazione o accento. Eppure il racconto di questo signore dai capelli candidi, che ci accoglie nella sua bella casa romana affollata di libri e affacciata su un panorama mozzafiato, ci conduce nel cuore della Storia.
Professor Saban, la prima metà della sua vita l’ha trascorsa a Istanbul. Qual è oggi il suo ricordo?

È una città bellissima, come Roma d’altronde. E ha il grande pregio di essere affacciata sul mare. Ogni giorno andavo al lavoro costeggiando le antiche mura di Bisanzio, lungo il mar di Marmara, sotto gli occhi il traffico delle navi. Istanbul allora era un vero crogiolo di culture in cui era normale parlare più lingue.
La sua famiglia che lingua utilizzava?
I miei, ebrei originari della Spagna, avevano scelto la nazionalità italiana dopo la prima guerra. Con la nonna e gli zii si usava dunque il giudeo spagnolo, ma a casa si parlava francese mentre io frequentavo la scuola italiana e imparavo l’inglese con una signorina.
E il turco?
L’ho imparato quand’ero più grande. Allora era normale così.
I suoi erano molto coinvolti nella realtà ebraica di Istanbul e così è stato per lei.
Allora la comunità era molto numerosa e attiva. Oggi in tutta la Turchia ci sono circa ventimila ebrei, allora se ne contavano quasi quattro volte tanto e la maggior parte viveva nella capitale. Uno zio paterno, Rafaele Davide Saban, è stato gran rabbino di Turchia. Mio padre e poi mio fratello s’impegnarono nel Consiglio laico del Gran rabbinato che si occupava della raccolta di fondi e nei primi anni Settanta, fui coinvolto anch’io.
Cosa significò per gli ebrei turchi la Seconda guerra mondiale?
Fin dall’inizio fummo coscienti di quanto stava accadendo e delle persecuzioni in atto. Ricordo, da ragazzino, una donna che in sinagoga lesse una lettera proveniente da Auschwitz. Era descritto tutto lì, chiaro e preciso. Per noi quello fu il tempo difficile della tassa sul patrimonio e dei lavori forzati obbligatori.
E dopo la guerra?
La nascita dello Stato d’Israele segnò un cambio epocale. Le facilitazioni offerte dal governo turco a quanti volevano emigrare ebbero l’effetto di dimezzare la comunità ebraica. Fu un esodo di massa che coinvolse soprattutto i ceti più popolari. Nel giro di pochi anni si spopolarono interi quartieri e scomparvero mestieri da secoli appannaggio degli ebrei, penso ad esempio ai vetrai o ai grondaisti.
Lei approda in Italia nel 1978 e quasi subito inizia a occuparsi di cose ebraiche. Come accade?
Mi ero laureato in matematica a Istanbul, dove insegnavo all’università. Nel 1950 avevo preso una seconda laurea a Roma ed ero stato più volte, in qualità di visiting professor, all’università dell’Aquila. Quando mi trasferii in Italia avevo dunque già stretto una serie di contatti e di amicizie che al mio arrivo si strinsero ulteriormente.
Nei primi anni Ottanta lei entra a far parte del Consiglio dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e nel 1985 diventa presidente della Comunità ebraica romana. È un periodo storico perché sul tavolo vi è la discussione dell’Intesa.
Su questo tema la divisione era netta: c’era chi riteneva necessario abolire la legge 30 che fino allora regolava il rapporto tra le Comunità ebraiche e lo Stato e chi riteneva che ciò avrebbe significato la fine dell’ebraismo italiano. Entrato con posizioni di assoluta neutralità, ben presto mi convinsi dell’opportunità dell’Intesa e mi spesi in tale senso.
L’altro appuntamento storico è la visita del papa alla sinagoga di Roma, il 13 aprile del 1986.
Mi trovavo in Consiglio quando rav Toaff presentò l’argomento. Aveva avuto dei contatti e il pontefice aveva manifestato la sua volontà di venire al Tempio maggiore. Mi resi subito conto che la mia reazione era leggermente diversa da quella dei miei colleghi e questo in certo modo marcò quella visita.
In che senso?
Venivo da una realtà del tutto differente. In Turchia le Comunità ebraiche intrattenevano rapporti di grande amicizia con il patriarcato armeno e con quello ortodosso. Le visite al gran rabbino in occasione delle festività da parte delle massime autorità religiose da noi erano la norma, non l’eccezione. Io stesso avevo accompagnato mio zio, il gran rabbino di Turchia, in incontri con gli altri vertici religiosi. Per me la visita del papa non era dunque traumatica come poteva esserlo per gli ebrei italiani, che erano stati oggetto di persecuzioni drammatiche e vivevano la Chiesa con un sentimento ben diverso.
Lei espresse questa posizione nel suo discorso in sinagoga.
Scrissi un testo franco e molto duro, perché i timori tipici degli ebrei vissuti nei paesi cattolici non erano i miei. E va detto che dal Consiglio mi venne proposta una sola correzione riguardo lo Stato d’Israele. Mi fu infatti consigliata una certa cautela nel passaggio in cui auspicavo che si stabilissero relazioni tra la Santa Sede e Israele, per non urtare la sensibilità del papa. Di quel testo non cambierei nulla ma quella è una modifica che ancor oggi deploro.
Cosa ricorda della visita del papa?
Non ebbi mai la sensazione di avere davanti una sorta di sovrano e non provai particolare soggezione. Il mio ricordo è di una persona molto aperta, gradevole, ironica, anche se le nostre idee non sempre coincidevano.
La sua origine le ha mai causato problemi nel mondo ebraico italiano? Come dimostra il mio percorso non mi ha impedito di raggiungere cariche di un certo tipo. Ciò non significa che il pregiudizio non ci sia stato. Ricordo che al tempo della visita di Rabin al Tempio maggiore di Roma gli fui accanto sulla tevah per tradurre il suo discorso dall’inglese. Fu una scelta naturale, perché nessun membro del Consiglio allora parlava facilmente le lingue. Ma molti si chiesero perché mai un ebreo turco dovesse avere quell’onore in una sinagoga italiana.
Cosa pensa della Turchia di oggi?
I rapporti con Israele sembrano ormai definitivamente incrinati e molti segnali dal fronte della sua opinione vanno in direzione ben diversa dall’ingresso in Europa. Ci torno periodicamente perché lì ho ancora dei familiari e ogni volta mi rendo conto che è un paese assai diverso da quello che ricordo dai miei anni d’infanzia.
Oggi, nel vuoto della politica, si è affermato un orientamento islamico che si oppone all’europeizzazione e che ha altri baricentri. Il crogiolo di culture e nazionalità in cui sono cresciuto è scomparso e solo una piccola minoranza ormai si rende conto che quell’intreccio era un elemento prezioso di modernità.

Daniela Gross, Pagine Ebraiche gennaio 2012

(Il disegno è di Giorgio Albertini)