La memoria non crea comunità

Insegnano i Maestri che l’atmosfera di una festa perdura nella nostra coscienza ancora per qualche tempo dopo la fine della festa stessa. All’uscita dalla Sukkah mi siano pertanto consentite alcune riflessioni. Lo spunto è empirico ma, credo, condivisibile. Abbiamo due grandi festività annuali a sei mesi una dall’altra: Sukkot e Pesach. Per quale ragione Sukkot è meno sentita di Pesach, al punto che molti correligionari assimilati considerano la prima una ricorrenza minore?
Si possono dare molte risposte. Sukkot si presenta subito dopo Rosh ha-Shanah e Yom Kippur, il periodo penitenziale che già assorbe le limitate energie spirituali di molti fra noi. Si può anche adoperare un’argomentazione più fine: mentre l’osservanza di Pesach, per quanto impegnativa, è alla portata di ciascuno in casa sua, non tutti hanno la possibilità materiale di edificarsi una Sukkah. Le Sukkot comunitarie sono già attestate mille anni fa nella letteratura dei Gheonim, come più tardi testimonia R. Tzidqiyah Anav da Roma (sec. XIII), Shibbolè ha-Lèqet, cap. 347: “C’è chi usa costruire la Sukkah nel cortile del Bet ha-Kenesset e su questa fanno affidamento gli ospiti o quelle persone che non dispongono di un proprio spazio adatto per edificarla”. La ragione halakhica del permesso è significativa: “La parola Sukkòt è scritta nella Torah senza waw come se potesse essere letta Sukkàt (al singolare): ci insegna che tutti gli Ebrei potrebbero risiedere in un’unica Sukkah”! Una terza ragione potrebbe ancora essere che Sukkot, a differenza di Pesach, non ha una celebrazione corrispettiva presso i non ebrei. “E Ya’aqov si recò a Sukkot, si costruì una casa e per il suo gregge si fece delle capanne”, dice la Torah (Bereshit 33, 17) alludendo a una prerogativa del popolo ebraico. Dal momento che il mondo esterno non ha feste in questo periodo, molti di noi non ne comprendono l’importanza.
Credo peraltro che la questione vada oltre queste risposte pratiche e rifletta la diversa dimensione concettuale che la Torah stessa assegna alle due ricorrenze. Lo scopo di Pesach è: “affinché ti ricordi del giorno in cui uscisti dalla terra d’Egitto tutti i giorni della tua vita” (Devarim 16, 3). Riguardo a Sukkot è scritto invece: “affinché sappiano le vostre generazioni future che nelle capanne ho fatto risiedere i Figli d’Israel allorché li trassi dalla terra d’Egitto” (Wayqrà 23, 43). Pesach è dunque la “festa della memoria”, mentre Sukkot è la “festa della conoscenza”. Si tratta di due funzioni complementari, necessarie entrambe, ma ben diverse fra loro. La memoria richiede cuore: si pensi all’espressione inglese “by heart” e al francese “par coeur” per designare l’apprendimento “a memoria”. Immaginando l’anno ebraico come un organismo a sua volta, Pesach cade a metà anno proprio come il cuore è collocato al centro del nostro corpo. La conoscenza, invece, ha sede nel cervello, situato in testa come Sukkot viene subito dopo Rosh ha-Shanah, il Capodanno nel senso etimologico del termine. Sukkot segna anche l’inizio dell’anno scolastico, in cui programmiamo la nostra futura conoscenza.
È più facile dedicarsi alla memoria che alla conoscenza, allo stesso modo che appellarsi al cuore degli individui dà in genere più risultati che appellarsi al loro cervello. Ma “la memoria è corta”: solo da chi ha vissuto i fatti si può legittimamente sperare che ne serbi il ricordo, mentre con le generazioni successive il compito è arduo e può rivelarsi fallace. Inoltre la differenza fra memoria e conoscenza è che la prima è eminentemente passiva, mentre la seconda risveglia il nostro spirito di elaborazione e non di semplice collaborazione. C’è poi un terzo elemento da non sottovalutare – e qui mi rivolgo apertamente ai nostri dirigenti – : la memoria non crea Comunità. Dobbiamo investire almeno pari energie nella conoscenza. Parola che da noi ha un solo significato: educazione dei giovani alla Torah. Solo la Torah costituisce il carburante atto a riaccendere anche da noi una vita ebraica fresca e rinnovata!
Non metto in dubbio l’opportunità di dedicare energie al ricordo della Shoah, affinché certe contingenze non si ripetano. È fondamentale lavorare per il nostro diritto a morire nel nostro letto, anziché in un campo di sterminio, ma non basta pensare al nostro ebraismo solo in funzione della nostra morte. L’ebraismo è vita, è futuro. Per molti di noi la “memoria” rappresenta l’unico interesse ebraico e certamente dirottarci verso una concezione dell’ebraismo più ricca e attiva comporta uno sforzo immane. Ma questo sforzo va compiuto, per noi e i nostri discendenti. L’invito più perentorio in tal senso ci viene da Emil Fackenheim, un rabbino riformato tedesco che scriveva: “Gli ebrei non hanno il diritto di concedere a Hitler delle vittorie postume. Essi hanno il dovere di sopravvivere come ebrei, perché il popolo ebreo non abbia a perire… Un ebreo non può rispondere al tentativo di Hitler di distruggere l’ebraismo cooperando egli stesso a tale distruzione. Nei tempi antichi il peccato impensabile per gli ebrei era l’idolatria. Oggi consiste nel rispondere a Hitler compiendo la sua opera” (“La presenza di Dio nella Storia”, Queriniana, Brescia, 1977, p. 111-112).
Un po’ ipocritamente si afferma che la diffusione della conoscenza ebraica spetti ai Rabbini. Verissimo, ma i Rabbini nulla possono senza il supporto strutturale dato dai lay leader. Sorgeranno dei dirigenti comunitari al fianco dei primi, pronti a investire nell’educazione, in scuole ebraiche serie, con la stessa prontezza con cui organizzerebbero l’ennesima “marcia della Memoria”?

Rav Alberto Moshe Somekh