Genova ricorda la ferita del ’43
“L’indifferenza uccide”

Si è aperta anche nel segno di Piero Dello Strologo, presidente e anima del Centro Culturale Primo Levi da poco scomparso, la marcia silenziosa in ricordo degli ebrei genovesi deportati dai nazifascisti che si è districata anche quest’anno per le strade del capoluogo ligure concludendosi in sinagoga.
In centinaia hanno sfilato all’iniziativa, promossa dalla Comunità ebraica cittadina insieme alla Comunità di Sant’Egidio, al Centro Culturale Primo Levi e all’Aned. Un appuntamento che è entrato da tempo nel calendario civile di Genova e che segue di qualche giorno la collocazione di una pietra d’inciampo in via Mameli per fare memoria del nome dell’ebreo genovese Bruno De Benedetti che fu deportato e ucciso in campo di sterminio. Di lui restano 159 lettere scritte alla moglie da Fossoli, oggi conservate presso l’archivio locale.
“L’indifferenza uccide”, si leggeva in uno dei cartelli che hanno guidato il corteo. Tra gli intervenuti Gilberto Salmoni, sopravvissuto a Buchenwald. A prendere tra gli altri la parola la presidente della Comunità ebraica Raffaella Luzzati, il rabbino capo rav Giuseppe Momigliano, il vicesindaco Pietro Piciocchi, don Francesco Doragrossa dell’arcidiocesi, Alberto Rizzerio del Centro Primo Levi, Filippo Biolè presidente di Aned Genova.
“Il 3 novembre 1943 gli ebrei genovesi con un inganno furono fatti venire in sinagoga e poi deportati, prima nel carcere di Marassi, poi a San Vittore e a Milano furono caricati sullo stesso treno verso Auschwitz che probabilmente fu costretta a prendere la senatrice Segre”, ha ricordato Luzzati. “Ricordare è una necessità, non è solo un dovere di rispetto. È un momento di riflessione per capire il presente”, le parole del rav Momigliano.

(Immagine: Sant’Egidio)

Di seguito l’intervento del rav Momigliano:

Da diversi anni ci ritroviamo per questo momento di ricordo e di riflessione nell’anniversario dell’inizio delle deportazioni degli ebrei di Genova. In una più ampia prospettiva, ricordare e riflettere sul significato della Memoria della Shoah non è solo un dovere morale è una necessità vitale per l’uomo – ce lo ricorda chiaramente il titolo di questa manifestazione “Non c’è futuro senza Memoria”, il futuro è un percorso da costruire nel ricordo del passato ma anche nella consapevolezza del presente, sicuramente noi non disponiamo degli strumenti necessari per comprendere il tempo in cui viviamo se non attraverso la memoria del passato. La memoria della Shoah significa innanzitutto confrontarci in modo specifico con l’antisemitismo in tutte le sue radici, ideologie, manifestazioni, che hanno avuto l’apice nella Shoah ma che hanno caratterizzato un lungo tratto della storia, e che tuttora riappaiono in vario modo anche nel nostro paese, tanto è vero che un preciso e dettagliato progetto per le scuole per l’informazione, la prevenzione e l’educazione contro l’antisemitismo, è stato elaborato lo scorso anno dal Ministero dell’Istruzione. D’altra parte sappiamo che la violenza nazista si scatenò contro diversi obiettivi, contro vari gruppi e soggetti le cui modalità di vita, identità, pensiero contrastavano in qualche modo l’ideologia e il progetto di dominio sul mondo del regime nazista, da questo punto di vista il ricordo della Shoah ci porta verso un’ampia prospettiva che richiede la verifica delle libertà di espressione, di identità e di pensiero e condizioni di dignità di vita, contro ogni forma di discriminazione e razzismo.
Nell’insieme di queste considerazioni più generali sul significato della Memoria, che significato specifico ha la nostra commemorazione dei deportati ebrei di questa città? Una caratteristica di questo momento di ricordo è il percorso che si compie partendo dal centro della Città – nei luoghi più vicini al posto dove venne brutalmente arrestato il Rabbino Capo Riccardo Pacifici – per giungere qui in Sinagoga. L’edificio della Sinagoga dove ci troviamo è quindi un luogo della Memoria, in quanto proprio qui ebbe inizio il percorso che destinava allo sterminio anche gli ebrei di Genova, è un luogo della Memoria perché qui ci ritroviamo noi ebrei insieme a tante persone di ogni religione e di varia identità religiosa, sociale e culturale. Questo edificio, non è però solo un luogo della Memoria, è ovviamente un luogo di preghiera che rappresenta la Comunità ebraica, ancora di più, è un luogo che racchiude elementi, simboli, testimonianze tanti riferimenti della vita ebraica, delle norme e delle tradizioni, del pensiero e della cultura, della storia e delle istituzioni che caratterizzano il popolo ebraico. Incontrarsi qui significa anche riflettere sull’incontro dell’ebraismo con altre civiltà, perché alla fine è anche su questa possibilità di incontro che si verifica se e in che misura l’antisemitismo sia ancora presente. Perché non è sufficiente contrastare l’antisemitismo violento, aggressivo, occorre considerare anche il pregiudizio nelle forme più subdole, quello che reca come messaggio una sorta di implicita ma incalzante comunicazione, come a dire “Con te, come ebreo, non ho nessun problema, però sarebbe bene che tu non insistessi troppo con le tue tradizioni, con le tue pratiche religiose, con il tuo voler essere diverso”.
Qui nella Sinagoga ci sono tanti segni della nostra identità, di ciò che ci unisce al contesto sociale di questa città e di ciò che ci divide; ci sono i sacri rotoli della Torà, il Pentateuco che ci unisce perché sacro alle nostre religioni monoteistiche, ma ci divide nei caratteri della lingua ebraica che alludono ad approcci ed interpretazioni anche molto diverse, la Bibbia ci unisce in quelli che sono i principi fondamentali della fede monoteistica e ci divide nei comandamenti che disegnano la diversità degli ebrei, nel quotidiano, come il cibo, nella scansione del tempo, che scorre con parametri diversi, nella distinzione dei giorni solenni, nelle tappe principali della vita segnate da specifiche diverse ritualità; queste differenze che la Bibbia indica sommariamente sono poi ancor più precisate e accentuate nei commentari del Talmud e nei codici dell’insegnamento rabbinico a proposito dei quali ricordiamo – specialmente il Talmud – oggetto di ostracismo e persino bruciato sui roghi. Su ciò che ci unisce, su ciò che lega gli ebrei a questo paese non occorre dilungarci è parte di una storia che in questa città ha diversi secoli e in Italia migliaia di anni, non è solo condivisione del territorio è un legame che si è espresso in tanti modi, con una partecipazione sentita, attiva e generosa alle vicende nazionali, con impegno nella cultura e nella società, tanto forte che permane intenso, questo legame con la cultura italiana, anche in coloro che hanno scelto di vivere in Israele. Tuttavia è proprio sulla possibilità di costruire relazioni positive, non malgrado le diversità degli ebrei ma attraverso queste diversità, che si misura la qualità dei rapporti tra i nostri mondi, perché tanti pregiudizi sono legati proprio alla caratteristica del popolo ebraico di essere per vari aspetti intrinsecamente diversi nella propria civiltà e di destare quindi sospetti, illazioni e stereotipi che cambiano nel corso dei tempi ma in qualche modo molto spesso legati a questa condizione di alterità. Le conseguenze di un atteggiamento che, pur non manifestandosi nel rapporto con gli ebrei in forma violenta è tuttavia emotivamente chiuso alla loro diversità, sono negative da diversi punti di vista: può incoraggiare, e infatti è questa una frequente variante, un processo di assimilazione in cui l’ebreo, consciamente o inconsciamente, reagisce o previene questo atteggiamento scostante dell’ambiente sociale circostante nascondendo o riducendo al minimo le espressioni della propria identità che ne manifestano i caratteri di diversità; al contrario può determinare una reazione di autodifesa dell’ebreo nei confronti del mondo non ebraico, con modalità di pensiero e di comportamento che ne sottolineano in modo marcato la radicale presa di distanza. In ogni caso si tratta di modalità sbagliate nei rapporti tra comunità che convivono e l’esito è negativo per tutti, l’assimilazione è sempre una sconfitta, tanto per chi rinuncia alla propria identità quanto per chi si dimostra indisponibile o incapace di rapportarsi con la diversità, rinunciando all’opportunità di conoscere meglio se stesso attraverso questo tipo di confronto, d’altra parte anche il chiudersi ermeticamente nel proprio mondo rischia di porre seri limiti al proprio orizzonte di conoscenze. Inoltre, dal punto di vista ebraico, non corrisponde al pensiero della Torà in cui la particolarità di vita che viene prescritta al popolo ebraico non è fine a se stessa ma, come detto dall’Eterno al patriarca Abramo, è rivolta al bene dell’umanità: “Saranno benedette in te tutte le famiglie della terra” (Gen.12,3). Ricordare insieme qui in Sinagoga significa forse anche fare di questo incontro un esempio di dialogo per le nostre e per altre culture e civiltà, un esempio di uomini e comunità che sanno cogliere queste occasioni per rafforzarsi positivamente ciascuno nella propria identità, non con uno sterile senso di superiorità ma imparando a conoscere ed a valorizzare ciò che ci distingue, riconoscendo e apprezzando al tempo stesso ciò che ci unisce, individuando e rispettando i principi comuni, al di sopra delle differenze di identità, su cui si deve basare uno stato libero; consapevoli delle diversità ma capaci di dialogare, gli uomini potrebbero ideare progetti condivisi sui problemi che gravano oggi sull’umanità intera, sui conflitti sempre più vicini a noi, che ci portano immagini di grandi sofferenze e incombono sul nostro futuro.
Certamente, anche nella capacità di costruire giorno per giorno una equa e armonica convivenza tra diverse comunità, si onora il dovere di ricordare la Shoah.
Il ricordo dei Martiri innocenti ci guidi in questi percorsi di vita. Shalom.

Rav Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova