L’insediamento del rav Sermoneta:
“Sarò il rabbino di tutti”

Si è aperta sulle note del “Baruch Abbà” la cerimonia di insediamento del nuovo rabbino capo di Venezia rav Alberto Sermoneta in una sinagoga spagnola gremita. Molte le autorità istituzionali e religiose presenti. In sala tra gli altri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
Un nuovo inizio, una giornata di festa. “Sarò il rabbino di chiunque lo vorrà, sarò il rabbino di tutti” ha detto rav Sermoneta, nato e formatosi a Roma, che arriva a Venezia dopo 25 anni di magistero a Bologna. Riallacciandosi ai temi dell’ultima parashah, la porzione di Torah letta settimanalmente in sinagoga, il rav ha detto di “aver sentito, dopo 25 anni, un Lech Lechà: un imperativo divino cui non è stato possibile dire di no”. Una sfida che inizia in una Comunità dalla storia gloriosa i cui rabbini, nel corso dei secoli, “hanno portato una luce, diventando un punto di riferimento per l’ebraismo mondiale”. Riguardo alle qualità proprie di un Maestro, il rav ha enfatizzato la necessità di “sapersi confrontare e avere l’umiltà di conoscere i propri limiti”, insieme all’impegno “a recarsi da ogni appartenente alla Comunità, senza mai sottrarsi”. Al centro la consapevolezza che la Comunità nel suo insieme “è un bene comune” bisognoso di cure e attenzione. Un patrimonio da difendere anche attraverso il contributo dei giovani, cui va fatto sentire “il calore della Torah”.
“Che cosa si aspetta una Comunità ebraica dal suo rabbino capo? Ci si aspetta presenza e vicinanza; attenzione alle esigenze della Comunità e attenzione ai problemi dei singoli, con uno sguardo aperto alle vicende del mondo. Ma sappiamo già che rav Sermoneta è un rav che scende fra la gente e non si chiude in torri d’avorio. L’assenza e l’ascetismo non fanno parte della cultura ebraica”, le parole in apertura di cerimonia del presidente della Comunità ebraica Dario Calimani. “Rav Sermoneta ci porta il contributo della sua storia, della sua cultura e della sua esperienza. Da rav Sermoneta, dal nostro rabbino, ci aspettiamo dibattito e discussione, perché se non c’è discussione non ci sono il fuoco e la passione della vita vera”.
Essere rabbino, ha osservato il rabbino capo di Milano e presidente dell’Ari rav Alfonso Arbib, “è un grande onore, ma anche un onere non piccolo”. Il rav ha parlato del magistero rabbinico come di una missione segnata dalla necessità di proporre una via “che può non piacere a tutti, ma è un dovere indicare”. Il tutto all’insegna di un’azione caratterizzata da “empatia e vicinanza alla Comunità e ai singoli membri”. L’augurio del rav Arbib alla Comunità veneziana è che “possa avere un futuro glorioso come il suo passato”.
Per rav Luciano Caro, rabbino capo di Ferrara, molte sono le qualità del rav Sermoneta. Tra le altre “saggezza, buon senso, equilibrio, disponibilità al dialogo, fermezza e rispetto nel rapporto con qualunque interlocutore”. Apprezzamenti anche dal rav Roberto Della Rocca, direttore dell’area Educazione e Cultura UCEI, che proprio da questa città iniziò la sua carriera rabbinica: “Rav Toaff ci raccontava che gli anni più belli li trascorse a Venezia. E io posso dire altrettanto”. Incarico di guida cui arriva ora “un rabbino dotato di grande empatia, generosità, sensibilità”. Prerogativa di un leader, il pensiero del rav Della Rocca, “è quella di sapere ciò che vuole: un rabbino che non litiga con la propria comunità non è un vero rabbino”.
In un messaggio di felicitazioni la presidente UCEI Noemi Di Segni ha sottolineato: “Essere parte di una comunità, avere come riferimento un rav con una solida esperienza, competenza e cultura comunitaria, è quanto di più necessario e indispensabile per maturare risposte e forse certezze di fede per trovare la forza di andare avanti, o semplicemente di andare come ci insegna la scelta di Abramo di cui abbiamo letto le prime vicende nella parashà di questo Shabbat”. Si va avanti, il suo messaggio “anche quando non si conosce esattamente il percorso e gli sviluppi successivi ma si ha piena fede e fiducia in chi ci guida: tra le infinite calli, piazze e canali sono certa saprai e saprete tutti assieme a rav Sermoneta tracciare questo nuovo percorso”.
La cerimonia, condotta dal vicepresidente della Comunità ebraica Paolo Navarro, ha visto vari intermezzi musicali. Ad accompagnare la voce del tenore Claudio Di Segni i coristi Daniel Coen, Alberto Di Capua ed Enrico Orvieto e l’organista Angelo Spizzichino.

Di seguito l’intervento del presidente della Comunità ebraica di Venezia Dario Calimani:

Mi unisco al saluto del VicePresidente Paolo Navarro, alle autorità e a tutti i convenuti.
Birshut haRabbanim. Con il permesso dei Rabbini presenti.

Un testo importante della tradizione ebraica ingiunge ‘’asé lechà rav” , “trovati un rabbino”. Non è per niente facile trovarsi un rabbino, perché la ricerca implica selezione e scelta, e la scelta cerca di cadere su qualcuno che risponda alle esigenze medie di una comunità complessa. Un bell’enigma! Alla fine, incappi sempre in un rabbino che pretende da te almeno quanto tu ti aspetti da lui. Ed è proprio in questo scontro di aspettative diverse e spesso opposte che si realizza la vitalità dell’esperienza ebraica. Non è dunque facile ‘trovarsi un rabbino’. E, tuttavia, non esiste comunità ebraica che possa farne senza. Una Comunità priva di rabbino non è una Comunità. Il rabbino, per noi, non è tanto una guida spirituale, quanto una guida culturale ed etica che ci indica la strada della vita. Una strada che è fatta di vita religiosa, ma anche, e non poco, di tradizione, di comportamento civile e di studio. La cultura rabbinica, quella stessa cultura che ci esorta con ‘trovati un rabbino’, ci intima anche: ‘non separarti dalla comunità’, ‘non giudicare il tuo prossimo fino a che non ti sarai trovato al suo posto’, ‘non umiliare il tuo prossimo in pubblico.’ La cultura ebraica sembra occuparsi più del rapporto dell’uomo con l’uomo che non del rapporto dell’uomo con il divino, e insegna che il rapporto dell’uomo con il divino passa in modo preminente dal rapporto dell’uomo con l’uomo. Se non si ha rispetto per l’altro, si viene meno anche al rispetto per il sacro. E l’altro non è solo chi ci sta vicino. L’altro è anche chi ci è lontano, chi non è simile a noi. È troppo facile ubbidire al comandamento del Levitico: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Troppo facile amare la propria famiglia, i propri figli, gli amici più stretti, i nostri simili. Lo scarto di umanità sta nell’amare chi è diverso da noi. Ben più difficile, allora, è attenersi al comandamento biblico: “Non opprimerete uno straniero, perché i sentimenti dello straniero li conoscete, essendo stati voi stranieri in terra d’Egitto” (Esodo 23:9).
Questi sono i sentimenti di umanità a cui un rabbino regolarmente ci richiama.
La storia del popolo ebraico arriva da molto lontano, ed è stata segnata dall’erranza; per questo siamo tanto sensibili, ancor oggi, all’erranza altrui. Qualcuno di noi è arrivato a Venezia 6-700 anni fa dalle rive del Reno, in Germania, altri dalla Spagna e dal Portogallo, altri dall’Impero Ottomano del Levante. Non è stato un viaggio né semplice né poco doloroso. La Serenissima ci ha accolto negli ultimi seicento anni o giù di lì, e, pur se con qualche difficoltà, ci ha dato la possibilità, con il tempo, di essere e di sentirci fortemente cittadini di Venezia. Oggi, l’aggregazione delle nostre alterità costituisce la Comunità ebraica di Venezia. Abbiamo realizzato un modello di sopravvivenza e di convivenza, in dialogo costante e convinto con la gente e con le istituzioni.
A Venezia l’ebraismo ha creato un crogiolo di vita e una fusione di diversità che non hanno avuto forse l’eguale in Europa. Un centro di vita e di eccellenza culturale e artistica che hanno saputo sopravvivere e prevalere anche sulle restrizioni di una vita segregata. Noi oggi siamo qui a testimoniarlo. E siamo testimoni viventi della volontà di sopravvivere alla più grande tragedia che la civiltà occidentale abbia inflitto a un popolo, la Shoah, testimoni viventi dell’impegno a superare il trauma del tradimento subìto ad opera di uno stato cui, peraltro, abbiamo sempre provato sincera gratitudine e inconfutabile fedeltà, e ad opera di un regime che non ha esitato a estrometterci dalla vita civile e a vendere le nostre vite.
Rav Alberto Sermoneta, assumendo oggi la carica di Rabbino Capo della Comunità ebraica di Venezia, si fa carico, assieme a noi, di questa storia, di questa memoria e di questa esperienza di vita, si fa carico dei nostri dolori, delle nostre ansie e delle nostre speranze, e avrà da oggi il compito di studiare con noi per indicarci la strada. Non importa conoscere la meta; importante è il viaggio. Dice il testo: “Non sta a te portare a termine l’opera, ma non hai il diritto di esimertene”. Da questa responsabilità nessuno di noi intende esimersi.
Rav Sermoneta appartiene a un’altra storia gloriosa e sofferta. La storia dell’esilio e dell’erranza della comunità ebraica romana, strappata duemila anni fa dalla terra di Palestina. Una ferita mai rimarginata.
A Roma, rav Sermoneta ha avuto fra i suoi Maestri, oltre a rav Vittorio Chaiim Della Rocca e a rav Nello Pavoncello, due altre figure insigni dell’ebraismo italiano, rav Elio Toaff, che fu rabbino capo a Venezia subito dopo la guerra, e si assunse il compito di risollevare questa comunità dalla tragedia della Shoah, e rav Alberto Piattelli, che fu anche nostro rabbino capo per un decennio. Rav Sermoneta arriva sulle orme dei suoi Maestri, dopo aver ricoperto per 25 anni la cattedra rabbinica della Comunità di Bologna. Credo, uno dei rabbinati più longevi in Italia. Alla Comunità di Bologna chiediamo scusa, con non poco senso di colpa, per averla defraudata.
Che cosa si aspetta una Comunità ebraica dal suo rabbino capo? Ci si aspetta presenza e vicinanza; attenzione alle esigenze della Comunità e attenzione ai problemi dei singoli, con uno sguardo aperto alle vicende del mondo. Ma sappiamo già che rav Sermoneta è un rav che scende fra la gente e non si chiude in torri d’avorio. L’assenza e l’ascetismo non fanno parte della cultura ebraica.
Rav Sermoneta ci porta il contributo della sua storia, della sua cultura e della sua esperienza.
Da rav Sermoneta, dal nostro rabbino, ci aspettiamo dibattito e discussione, perché se non c’è discussione non ci sono il fuoco e la passione della vita vera. Con il rabbino ci può essere confronto e contesa, in controversie che nessun dogma può limitare e chiudere. Nel confronto e nel dibattito sono la prassi e l’humus della vita ebraica, la sua linfa vitale. Unico limite che l’ebraismo concepisce, e lo ricordo alla mia Comunità, è il rispetto, in cui si riconosce al Maestro il ruolo di Maestro. Al Maestro non si insegna e non si afferma, al Maestro si può chiedere.
A rav Sermoneta dico:
“Benvenuto, assieme alla sua famiglia, nella nostra Comunità.
Benvenuto a capo della nostra Comunità.
Speriamo davvero di non farla soffrire più del giusto e del fisiologico. Lei conosce bene le parole: “A coloro che si occupano delle necessità della Comunità, il Signore renderà merito”, e lo humour ebraico si chiede perché spetti al Signore di rendere loro merito; perché quel merito, lo si sa, la Comunità non glielo riconoscerà mai.
Siamo certi, tuttavia, che assieme, lei accanto a noi, e noi attorno a lei, faremo molta strada, per il bene della nostra Comunità, orgogliosi della nostra storia, che da oggi è anche la sua storia.”
Shalom.

Dario Calimani, presidente della Comunità ebraica di Venezia

Di seguito il messaggio della presidente UCEI Noemi Di Segni:

Caro Rav Sermoneta, Rabanim, Presidente Calimani, carissimi amici della Comunità di Venezia,
partecipo con emozione a questo momento di insediamento formale di Rav Sermoneta al quale esprimo la mia stima e, in questa solenne giornata di avvio del suo alto Ufficio, l’augurio di un fruttuoso lavoro.
Lavoro che non si svolge in una sola direzione nel prodigarsi quotidiano e per ciascun appuntamento di celebrazione sabbatica o festiva, ma che si svolge necessariamente assieme e presuppone una piena condivisione da parte della Comunità, del suo Consiglio e di ciascuno dei suoi iscritti e frequentatori. Il rav non è il notaio halachico che sigla atti e controlla regolarità di legge religiosa, ma è morè – ossia insegnante, guida, referente spirituale per generare senso di comunità e coesione. Aggiungo anche autorevole referente verso istituzioni esterne all’ebraismo locale – per gli ebrei di ogni parte del mondo che approdano a questo Lido, per le altre comunità religiose e per gli esponenti delle autorità civili – per interloquire, rappresentare e fare conoscere l’anima ebraica di Venezia. Anima che non ha mai cessato di essere parte della città e delle sue vicende di lunghi secoli di Storia, di bui secoli di persecuzione e primo ghetto, ma anche di innovazioni di scienza e saperi di cui l’ebraismo italiano tutto è fiero ed orgoglioso. Rav Sermoneta si assume questa missione in tempi di faticosissime sfide di ripresa da un lato di guerra che prosegue, dall’altro di cambiamenti politici che segnano o superano confini, di crisi che riguardano il nostro vivere collettivo e di singoli, come genitori e figli, come persone in cerca di risposte e nuove certezze, come persone bisognose di una carezza o una spalla a volte anche senza saperlo. Sfide che ci riguardano come cittadini ma anche specificatamente come ebrei nel modo di ragionare sul destino e sul domani. Essere parte di una comunità, avere come riferimento un rav con una solida esperienza, competenza e cultura comunitaria è quanto di più necessario e indispensabile per maturare risposte e forse certezze di fede per trovare la forza di andare avanti, o semplicemente di andare come ci insegna la scelta di Abramo di cui abbiamo letto le prime vicende nella parashà di questo shabat. Si va avanti anche quando non si conosce esattamente il percorso e gli sviluppi successivi ma si ha piena fede e fiducia in chi ci guida. Tra le infinite calli, piazze e canali sono certa saprai e saprete tutti assieme a Rav Sermoneta tracciare questo nuovo percorso.
Cito una brevissima canzone di Itai Zorea – “Passo nei vicoletti, sento sussurrare, sussurrio di segreti, segreti del sacro; molte disgrazie, “Evrà”, guerre e crisi, questa è la città a noi cara, terra di saggi..” evoca Venezia e cosi la percepisco in queste note dedicate alla città di Zfat e quindi mi rivolgo alla Comunità di Venezia che ha saputo scegliersi un rav e acquisire un amico (asè lechà rav uknè lechà chaver) come ci insegna la Mishnà di Avot (1,6), congratulandomi per l’esempio dato, anche in questa scelta e che continuerà ad essere e dare all’Italia ebraica tutta.
Buon lavoro e behazlachà,

Noemi Di Segni, Presidente UCEI