Tecnosovranismo

A volte la via per Damasco fulmina e acceca. Damasco è la scoperta, per così dire, che esiste un potere, quello politico, che non si fa riformare, e ancora meno rivoluzionare: semmai è da conquistare. Ed è anche l’opportunità, dopo anni – anzi, decenni – di ripetuta minorità, di marginalità calcolata, di ostracismo più o meno dolce, di sussidiarietà ai margini, per potersi invece dichiarare finalmente al centro dell’altrui attenzione. Passando dal ruolo obbligato di comparse a quello di primi attori. Un po’ come quel goloso che, dopo avere fatto, senza troppa convinzione ma grande costrizione, una dieta feroce, entrato nel negozio del pasticciere può finalmente ordinare e divorare quel che più gli aggrada. La destra illiberale e postfascista, in Italia come in Europa, si trova, nei fatti, in una tale condizione. Ancora una volta, a rischio di risultare noiosi, è d’obbligo chiarire il senso delle parole che stiamo usando. Quella destra di cui stiamo parlano – non demonizzandone la sua dimensione e storia – ha costruito il proprio profilo e la sua identità sul rifiuto degli ordinamenti costituzionalisti esistenti. In altre parole, si è data corpo e sostanza con il rigetto dei sistemi di generazione, contrattazione, riconoscimento e garanzia dei diritti che sono invece alla base degli ordinamenti istituzionali continentali. Dai quali, peraltro, ha comunque tratto beneficio, non venendone esclusa, non almeno del tutto, dal momento del loro esordio, con la fine – nel 1945 – di quella guerra mondiale che il totalitarismo nazifascista aveva scatenato sei anni prima. Ebbene, quella destra, che è populista per quel tanto che gli occorre, ovvero per accreditarsi dinanzi all’elettorato, ha dichiarato da subito che il vero motivo per il quale è necessario coalizzarsi è l’inadeguatezza, rispetto alla sfida dei tempi correnti, dei sistemi istituzionali liberaldemocratici. Polonia e Ungheria sono l’esempio di questa dottrina, che si tramuta in fatti. Non occorre che i due paesi (ed altri ancora) siano tra di loro d’accordo su tutto. Non sono infatti la riedizione del passato bensì un’articolazione d’interessi nel presente. Le rispettive classi dirigenti nazionali possono essere in opposizione tra di loro rispetto agli esiti della guerra russo-ucraina, ma trovano comunque un punto di convergenza nella gestione interna dei rispettivi paesi: secca limitazione delle prerogative e delle libertà della magistratura; ricorso al sistema referendario per ottenere, dal «popolo», di volta in volta, un qualche mandato plebiscitario che possa scavalcare l’equilibrio di poteri preesistente; avversione nei confronti del pluralismo culturale e sociale, con una particolare indisponibilità contro le minoranze di genere e la varietà delle identità; conservatorismo illiberale basato essenzialmente sul concetto di «natura» applicato allo sviluppo delle società (ci sono cose “giuste”, ad esempio i legami tra coppie eterosessuali, e cose “ingiuste” poiché innaturali, come il matrimonio tra membri dello stesso sesso; una tale categorizzazione può estendersi, nel corso del tempo ad altri gruppi e materie, rafforzando la separazione tra minoranze e maggioranza); una sfiducia di fondo rispetto al sistema costituzionalistico dei diritti, e alla loro preservazione per via legale e giurisdizionale, ritenendo semmai che è alla politica che debba tornare la palma della decisione, operando in un regime di costante emergenza. Non conta definitivamente ciò che è sancito dalle leggi ma quello che le circostanze dettano di volta in volta. Stabilita una tale cornice comune, rimane poi il caso Italia. Qualcuno ha fatto notare che «il punto, per il governo Meloni, non sono soltanto i ministeri: ciò su cui si misurerà la capacità di tecno-sovranismo, cioè di tenere insieme un’agenda conservatrice sulla politica interna e una certa credibilità con l’establishment internazionale e nazionale garantita da figure inserite in questi mondi, è sui posti di alto livello amministrativo, fondamentali per gestire la macchina ministeriale. È qui che la compenetrazione tra la coalizione più a destra della storia della repubblica e la tecnocrazia sarà più visibile (o si dimostrerà fallita). Tra Palazzo Chigi e i ministeri sono circa trecento le nomine necessarie a coprire i posti apicali […]. Quando si vince e bisogna governare […] il cerchio magico non basta più. Il ruolo di presidente dei Conservatori europei, assunto da Meloni nel 2020, è funzionale a questa strategia, e consente alla leader di Fratelli d’Italia di tessere relazioni molto utili con il Partito repubblicano, il Partito conservatore britannico e il Likud israeliano, senza contare gli alleati in Europa, come il PiS, partito al governo in Polonia, e il Partito democratico civico, che esprime il presidente del Consiglio della Repubblica ceca» (David Allegranti, Francesco Maselli). In altre parole: «il tentativo, almeno a partire dalle prime ore dopo la vittoria, è quello di applicare il tecnosovranismo: un governo con una forte guida politica ma gestito, nella quotidianità, da persone con una consuetudine con la macchina amministrativa italiana, con l’establishment interno ed internazionale. Insomma, se si analizzano i suoi primi passi, Meloni mostra di aver compreso che la sovranità non è più soltanto verticale, il mandato popolare non è sufficiente per governare con profitto, ma serve anche la sovranità orizzontale, cioè il riconoscimento dei pari grado internazionali e delle strutture sovranazionali che prendono decisioni che si riverberano sugli Stati che ne fanno parte». Quanto tutto ciò dovesse per davvero coniugare i due estremi in gioco, ossia la politica come ambito a sé, ovvero autonomo, e l’economia come insieme di apparati più o meno manifesti, capaci comunque di orientare gli indirizzi di fondo dei singoli paesi, lo diranno solo i tempi a venire. Il campo di conflitto nelle nostre società è tra questi due paradigmi, laddove si formano il consenso o il dissenso che attraversano, e fidelizzano o estraniano, persone e gruppi sociali. Il paradosso populista, se così lo si vuole chiamare, sta in fondo nel fatto che esso ha inteso quale sia il vero terreno di contrapposizione (scelta politica o sudditanza economica), di contro ad un liberalismo centrista o “progressista” che, invece, si sta facendo annientare un po’ ovunque. Da qui, da un tale terreno di confronti e contraddizioni, qualsiasi ipotesi di ricostruzione dell’intervento politico deve quindi ripartire, pena – altrimenti – la sua nullità. Per l’appunto, il paradosso è che parrebbe essere la destra postfascista ad avere colto meglio una tale piegatura delle cose. Almeno per il momento. (16/10/2022)

Claudio Vercelli