Un nuovo appuntamento con il Dialogo

Il 17 gennaio prossimo si svolgerà una nuova Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. Il Consiglio dell’Assemblea Rabbinica Italiana ha prodotto per l’occasione il seguente testo:

Anche quest’anno ci prepariamo a celebrare la giornata del 17 Gennaio come occasione di dialogo con la Chiesa Cattolica. Sono passati molti anni dalla sua istituzione, fin dall’inizio era stato concordato di scegliere ogni anno uno specifico tema intorno al quale indirizzare il confronto. Seguendo questo criterio, abbiamo affrontato l’intero ciclo delle “Dieci Parole” (i Dieci Comandamenti), poi le cinque Meghillòt, i “Rotoli”, piccoli e densi libri biblici. Esauriti questi temi si è posto il problema di come continuare, e in una riunione congiunta ci è stato proposto per quest’anno di trattare il brano profetico di Isaia 40. Abbiamo subito accettato, non senza un certo stupore, perché nella comunità ebraica quel brano è vissuto con tale intensità e specificità, che ci sembrava strano che avesse tanta importanza per un pubblico cristiano. Ma la ricchezza della Bibbia sta proprio in questo, che riesce a parlare a molti, anche se differenti per sensibilità e tradizioni.
In cosa consiste la specificità ebraica di quel brano? È innanzitutto la sua speciale collocazione liturgica, che a sua volta è espressione di un pensiero importante. Nel calendario ebraico, si celebra d’estate un periodo speciale, particolarmente austero, di tre settimane, che inizia con un digiuno (il 17 di Tamuz) e finisce con un altro digiuno, ancora più rigoroso, quello del nove di Av. In questo giorno si ricordano le distruzioni del primo e del secondo Santuario di Gerusalemme e molte altri eventi luttuosi che hanno funestato la storia ebraica. Nel sabato che precede il 9 di Av si legge, con melodia struggente, il capitolo 1 di Isaia, quello della “Visione”, severa e minacciosa. Nel sabato successivo l’atmosfera cambia, è il momento della ripresa, della consolazione, il brano scelto per segnalarlo è proprio Isaia 40, che inizia con le parole Nachamù nachamù ‘amì, “Consolate, consolate il Mio popolo”. Questa volta la melodia è solenne e festiva. Tutto questo per dire che c’è una precisa interpretazione storica nell’uso di quel brano. Il popolo di Israele, pur colpito da sciagure, sa che dopo il lutto viene la consolazione, la vita riprende, il legame con il Signore torna ad esprimersi su toni più sereni, nell’attesa fiduciosa della completa redenzione, su questo percorso il messaggio è sempre valido. Tanto radicata è la consuetudine di quel brano, che si presta pure, nel linguaggio dialettale degli ebrei italiani, a un proverbio meteorologico: “Nachamù, nachamù e l’estate non c’è più”.
L’esegesi ebraica, attraverso il midrash e alcuni commenti tradizionali, ha approfondito il significato di queste parole di consolazione del profeta, scoprendovi una ricchezza di contenuti che aprono altri orizzonti sul popolo ebraico ma anche sull’umanità, nel rapporto con l’Eterno, in prospettiva universale. Il messaggio di consolazione è certamente rivolto innanzitutto al popolo ebraico per le sofferenze subite che hanno di gran lunga superato ogni dimensione di pena per le colpe commesse, per questo l’Eterno ribadisce il senso di un legame profondo con Israele, un legame che non è mai venuto meno e che qui trova espressione nel più intimo richiamo al “Mio popolo”. Il midrash coglie nell’invito profetico a consolare Israele una sorta di diretto coinvolgimento divino in questa iniziativa, quasi espressione di una partecipazione da parte dell’Eterno della condizione di sofferenza del Suo popolo, dice infatti midrash che il Signore in un primo tempo affida a dei messaggeri il compito di consolare Israele, per tale compito si rivolge quindi ai patriarchi, ad Abramo , Isacco e Giacobbe, poi a Mosè, ma il popolo non trova conforto fino a quando è D.O stesso che interviene direttamente per consolarli manifestando che – in un certo senso – era stato con loro nella sofferenza. (Yalkut Shim’onì). La consolazione del popolo ebraico di cui parla il profeta non è tuttavia un elemento che riguardi esclusivamente il legame tra l’Eterno ed Israele, c’è una più ampia necessità di riconciliazione che può essere colta – come fa il commento di Shemuel David Luzzatto – nell’invito a porgere conforto, rivolto indistintamente a chi si mette in ascolto della parola del profeta, quasi il Signore intenda invitare i popoli, il mondo intero a confortare il Suo popolo. Con un’altra prospettiva il midrash approfondisce il senso consolatorio di questo messaggio richiamandosi ad alcuni episodi biblici nei quali ritroviamo questa intensa condivisione di sentimenti e di emozioni. L’interpretazione rabbinica ci ricorda quanto narrato nel libro di Ruth, a proposito del notabile della tribù di Jeudà, Boaz, che si prese cura e diede conforto alla giovane Ruth, che viveva la triste condizione di origine straniera –in quanto moabita -vedovanza e miseria, facendosi per di più carico anche della suocera Noemi; la sollecitudine di Boaz si spinge fino a sposare Ruth e a risollevare con generosità le sorti della famiglia di Noemi, così adempiendo pienamente alle responsabilità che gli spettavano in virtù del vincolo di parentela :“ Se Boaz – dice il midrash – riuscì a consolare Ruth rivolgendo dolci parole di conforto al suo cuore, tanto più il Santo, benedetto Egli sia, saprà consolare Gerusalemme” (Pesiktà de-Rav Kahanà,16). Con analoga prospettiva, un altro midrash richiama le parole di conforto che Giuseppe rivolge ai fratelli, rassicurandoli che non intendeva serbare loro rancore nel momento in cui, con indicibile sgomento, scoprono che colui che si era loro presentato come ministro del faraone altri non era che il loro fratello che avevano venduto come schiavo – “Se Giuseppe – dice il midrash – trovò le parole per confortare i fratelli, a maggior ragione il Santo, benedetto Egli sia, saprà consolare Gerusalemme”(Bereshit Rabbà, 109). In un certo senso questi insegnamenti del midrash, mettendo a confronto la compassione che viene dal Signore con il conforto che gli uomini possono darsi l’un l’altro, ci ricordano che il sostegno che attendiamo dal Signore, nel tempo della sofferenza, giunge più sollecito ed intenso quando trova gli uomini già disposti per gesti e parole che aprono vicendevolmente i loro cuori.
Il brano di Isaia inizia con il messaggio consolatorio, ma propone altre riflessioni importanti. C’è l’invito a costruire nel deserto una strada per il Signore. Il testo ebraico dice: Qol qorè: bamidbàr panù derekh Hashèm “una voce che chiama: nel deserto sgombrate la strada del Signore”. Togliendo i due punti è diventato Vox clamantis in deserto, espressione proverbiale, che però sovverte il senso originale. Anche qui l’esegesi ebraica inserisce una chiave interpretativa storica: la strada serve perché gli esuli ritornino nella loro terra; il riferimento al deserto rinnova il ricordo del percorso di liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù in Egitto, come allora il Signore guidò il suo popolo, proteggendolo dai nemici e facendogli superare le insidie del deserto, così al tempo della redenzione curerà il ritorno verso la terra promessa e nuovamente coll’aiuto dell’Eterno tutti gli ostacoli potranno essere superati “ogni valle si innalzerà, ogni monte e ogni altura si abbasseranno, quello che era ondulato diverrà piano “. Anche qui le implicazioni possono essere tante, non è solo, evidentemente, il deserto fisico, ogni altro elemento del contesto fisico (le valli, i monti) può diventare metafora dell’indole umana, della superbia abbassata e della modestia premiata; nel messaggio spirituale significa anche – come rileva il commento di Izhak Abrabanel -operare per rimuovere gli ostacoli che impediscono all’aiuto del Signore di giungere nella sua dimensione più ampia e manifesta. Questa sollecitazione all’iniziativa dell’uomo, in termini di elevazione morale e purificazione spirituale, un’azione dell’uomo necessaria per dar modo alla provvidenza divina di manifestarsi pienamente, si coniuga con l’altra grande idea di questo brano, quella della fragilità, della caducità, dell’inconsistenza della natura umana in contrapposizione allo spirito divino. L’uomo è come l’erba che si secca, mentre lo spirito del Signore permane per sempre. La speranza di forza e di sostegno per l’uomo è da riporre unicamente nel Signore, Egli può venirci incontro ma tocca all’uomo spianare la strada
Sono messaggi che ci parlano intensamente anche nel tempo presente. In questi ultimi anni sono successe tante cose negative e non ne siamo ancora venuti fuori. Il passo profetico indica una strada, una direzione, una consolazione, purché l’essere umano sappia mettersi in ascolto della voce del Signore e con tale guida comprenda quale è il suo ruolo e il suo compito.