Machshevet Israel Storiografia o storiosofia?
Invitato a partecipare, giorni fa, a una tavola rotonda al Meis di Ferrara sul tema dell’esilio, ho proposto una riflessione sulla compresenza dialettica nel giudaismo di due approcci diversi a questo tema e in generale alla storia del popolo ebraico: un approccio storiografico e un approccio che, con termine desueto ma pregnante, alcuni studiosi (ad es. il prof. Aviezer Ravitzky) definiscono ‘storiosofico’. Qual è la differenza? La storiografia altro non è che la riflessione critica sui princìpi metodologici e sui presupposti ideologici con cui viene elaborata e scritta, in modo selettivo a fini interpretativi, la storia dei fatti accaduti in epoche passate. Come tale, si tratta di un concetto e un approccio tipici della modernità. Per storiosofia si intende una prospettiva sugli eventi considerati alla luce di precisi significati religiosi, in quanto inseriti in una catena di azioni umane sempre ‘sotto l’occhio divino’, per così dire; tali significati possono essere a noi palesi o nascosti, ma tracciano l’alveo di un volere divino che è, al contempo, una sapienza superiore; di conseguenza, nella storia occorre vedere la metaforica ‘mano di Dio’ al fine di comprendere cosa succede. Sin dalla stesura dei testi biblici e poi nella variegata produzione di midrashim (durata oltre un millennio), arrivando infine alla modernità – ma in alcuni ambienti ortodossi fino ad oggi – è questa la concezione dominante della storia, una storia che in realtà è una memoria, quasi una chokhmà, una sapienza religiosa fissata in una costellazione di racconti tesi a coltivare l’identità sulla base di quella memoria sapienziale, in modo quasi indifferente alla ‘verità storica’ (in senso moderno).
Nella storiosofia l’ordine del reale si sottopone all’ordine dell’ideale, e il positivo o il negativo si misurano sulla base della vicinanza o della lontananza tra i due ordini. In quest’ottica il senso degli eventi non scaturisce dalla ricostruzione ‘scientifica’ degli eventi stessi, ma gli eventi sono tali a partire dai significati che la fede attribuisce loro. Dunque il luogo della ricomprensione degli eventi non è tanto il racconto degli storici o la decifrazione e comparazione dei documenti, quanto il ciclo del calendario liturgico, la cui ratio trova in un dettaglio storicamente insignificante (ad es. una lampada ad olio che non si spegne per otto giorni) la chiave e il senso di eventi complessi come uno scontro armato tra opposti mondi politici e culturali, o addirittura una guerra civile intraebraica (alludo allo scontro tra seleucidi e maccabei nonché tra ebrei ellenizzati e non, a metà del II secolo a.e.c., che sta alla base della festa di Chanukkà). È questa prospettiva o meglio quest’acuta sensibilità religiosa, come hanno spiegato sia lo storico Yosef Hayim Yerushalmi (1932-2009 sia il biblista Yehezkel Kaufmann (1889-1963), ciò che ha anestetizzato il mondo ebraico all’istanza greca della valutazione critica della storia e ha reso di fatto inesistente una storiografia ebraica fino all’età moderna (culminata con la Wissenschaft des Judentums, fino a Simeon Dubnow e Salo Baron). Nondimeno, a partire dal XVI secolo – in particolare nel mondo ebraico italiano – emerge progressivamente anche la storiografia: si profila già nelle opere di Itzchaq Avravanel, e poi in Solomon Ibn Verga, Azariah de’ Rossi, Simone Luzzatto… I primi due sono esuli di rango dalla penisola iberica, e nel loro caso è proprio il bisogno di riflettere sul dramma dell’esilio, anzi dell’esilio dall’esilio, ciò che li spinge a cercare di capire cosa è successo e perché. In quella fase i due approcci sono ancora imbricati e compresenti, ma a poco a poco si dipanano delineandosi come due prospettive diverse e, di fatto, divergenti, sebbene coesistenti nell’orizzonte della cultura ebraica moderna.
Chi ha messo a fuoco tutto ciò nel Novecento sono stati due grandi storici che hanno offerto anche profonde riflessioni storiografiche: Itzcahq Baer (1888-1980) e lo stesso Yerushalmi, curiosamente due ashkenaziti appassionati di storia sefardita. Baer è autore di un illuminante studio intitolato Galut, esilio appunto, scritto in tedesco nel 1936, che può dirsi un vero e proprio manuale di storiografia ebraica, e dove questo termine/concetto emerge in una vasta gamma di significati nel corso della storia del popolo ebraico, fino al ritorno in Eretz Israel. Yerushalmi compie il medesimo percorso nel suo breve capolavoro Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, edito in inglese quarant’anni fa, nel ’82 (tradotto da Daniela Fink per Pratiche Editrice nel ’83 e ristampato da Giuntina nel 2011), opera che coglie il punto problematico della storiografia ebraica esattamente nel complesso e non di rado conflittuale rapporto tra storia e memoria, tra ricostruzione degli eventi e codificazione dei loro significati per le generazioni future. Chiudo con una sua potente intuizione: “Il declino della memoria collettiva nei tempi moderni è solo uno dei sintomi del dissolvimento di quel rapporto organico tra la fede e la prassi grazie ai cui meccanismi interni il passato poteva farsi presente. Sta qui la radice della malattia, e la memoria ebraica non può essere risanata se la vita comunitaria non trova un rimedio alla sua disgregazione interna… Ma per le ferite che l’ebraismo ha riportato negli ultimi duecento anni, lo storico può essere nella migliore delle ipotesi un patologo, ma non può certo suggerire una terapia”. (14/11/2022)
Massimo Giuliani, università di Trento