Totalitarismo

“Può darsi che fra vent’anni avrete ragione voi, ma per il momento sono io che ho ragione”.
Sono le parole con cui il giudice istruttore interviene per esortare la corte a condannare Andrej Sinjavskij e Julij Daniel. Accontentato: cinque e sette anni di carcere e lavoro forzato nel lager. È il febbraio 1966. Per chi volesse saperne di più Ezio Mauro, nel suo Lo scrittore senza nome. Mosca 1966: processo alla letteratura (Feltrinelli), ha descritto quella storia con grande competenza, ma anche, cosa che non guasta, con profondo senso civico (una cosa che fa rima con giornalismo).
Più di mezzo secolo dopo, ci risiamo (chi avesse dubbi legga per favore Proteggi le mie parole, il libro che l’editore e/o manda in libreria prossimamente). Chissà se qualcuno, in un qualsiasi spazio dell’informazione pubblica, in mezzo alla fiumana di parole sull’orgoglio russo ferito avrà l’intelligenza – dismettendo la furbizia – di parlarne, chiamando le cose con il loro nome: “totalitarismo”.
Aspetto, con scetticismo.

David Bidussa, storico sociale delle idee