“Ebrei e cristiani, lavoriamo insieme
per favorire il Tikkun Olam”

Implementare il Dialogo interreligioso, fare in modo che ebrei e cristiani siano partner sempre più coesi nella costruzione “di un futuro migliore”. È la sfida di Kishreinu, termine ebraico traducibile con “I nostri legami”. Un nuovo impegno promosso dal World Jewish Congress e presentato quest’oggi in Vaticano nell’Aula del Sinodo. Il testo, di cui esiste una prima bozza, sarà aperto a ulteriori contributi e portato all’attenzione di papa Francesco. Che intanto, nel corso di un successivo incontro, si è soffermato sulla necessità di lavorare insieme “per rendere il mondo più fraterno, lottando contro le disuguaglianze e promuovendo una maggiore giustizia, affinché la pace non rimanga una promessa dell’altro mondo, ma sia già realtà in questo”. Secondo il papa “colui che tutto ha creato secondo ordine e armonia ci invita a bonificare questa palude di ingiustizia che affossa la convivenza fraterna nel mondo”, nella consapevolezza che “la giustizia che, insieme alla verità, all’amore e alla libertà, è una delle condizioni fondamentali per una pace duratura”. Rivolgendosi ai delegati presenti, Bergoglio ha evidenziato il valore di una visita “che testimonia e rinsalda i legami di amicizia che ci uniscono: sin dal Concilio Vaticano II, la vostra organizzazione dialoga con la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo e da anni organizza convegni di grande interesse”.
Ronald Lauder, il presidente del World Jewish Congress, ha definito l’iniziativa e la circostanza “storica”. Anche per via del luogo in cui Kishreinu è stato annunciato: “È la prima volta che il Vaticano ospita l’incontro di un’organizzazione ebraica”. L’obiettivo è di proseguire lungo la strada tracciata dalla Dichiarazione Nostra Aetate emanata dalla Chiesa nell’ambito del Concilio Vaticano II. “Ci ha dimostrato che quello che ci unisce è più forte di quel che ci divide”, la valutazione di Lauder. Centrale in questo senso “il rifiuto dell’antisemitismo” che si esprime tra le sue righe “e che ciascun papa ha sempre ribadito” nei suoi interventi. C’è comunque molto da fare, incalza Lauder. Soprattutto guardando alle nuove generazioni e alla loro formazione. Il concetto chiave è quello di Tikkun Olam, la “riparazione del mondo” dalle sue storture. In questo ambito l’alleanza dovrà fare un ulteriore salto di qualità “per favorire la diffusione di pace e armonia”. E opporsi al contempo “contro ogni forma di discriminazione”. Al riguardo Lauder ha citato un suo editoriale apparso sul New York Times in cui protestava contro i silenzi dell’opinione pubblica nei confronti delle persecuzioni contro alcune comunità cristiane. Camminare insieme. E farlo anche nel segno dei grandi personaggi che hanno scritto la Storia recente dell’umanità. Nell’anniversario del suo assassinio un pensiero è stato dedicato non a caso a John Fitzgerald Kennedy, “primo presidente cattolico degli Usa e figura molto amata anche dall’ebraismo americano”.
La riunione del comitato esecutivo del World Jewish Congress è stata anche caratterizzata da un incontro con l’ebraismo italiano e romano. “È significativo che ieri ci trovassimo insieme al Tempio Maggiore della Capitale e oggi in Vaticano. Quelle tra ebrei e cristiani sono relazioni speciali. D’altronde dialogare con il mondo ebraico vuol dire fare i conti con la nostra stessa identità di cristiani” le parole del cardinale Kurt Koch, il presidente della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Anche Koch ha ricordato la svolta impressa dalla Nostra Aetate: “Ha favorito una maggiore conoscenza reciproca e il consolidamento di una riconciliazione”. A detta del cardinale ebrei e cristiani, tra le tante sfide del presente, dovrebbero far fronte anche al rischio di una “relativizzazione” che metterebbe in pericolo “entrambe le tradizioni religiose, erodendo quel patrimonio spirituale dal quale non dobbiamo alienarci”.
“Il legame e il rafforzamento di un legame di lunga durata è una sfida anche per la comunità ebraica che deve trovare coraggio e fiducia di conoscere la cultura cattolica, leggerne pensiero e linguaggio per capire il pieno significato dei cambiamenti maturati e proposti”, una delle riflessioni poste dalla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni. Un compito non facile visto che “spesso l’atteggiamento difensivo prevale, perché secoli di prevaricazione sono difficili da eludere”. L’impressione è che “se oggi fosse la Chiesa cattolica ad annunciare l’adozione della definizione dell’Ihra sarebbe davvero un gesto – no, mi correggo, un atto straordinario di lungimirante consapevolezza della propria autorevolezza, responsabilità e capacità di fare girare la ruota dell’odio antisemita nell’inversa direzione”. Anche Di Segni ha ribadito l’importanza dell’appuntamento odierno: “Il significato di questo momento di incontro è altissimo e storico”.

Di seguito l’intervento della Presidente UCEI Noemi Di Segni:

S.E Ambasciatore Lauder/His Excellency

S.E Cardinal Koch/His Eminency

Illustri Rabanim/

Dear presidents and members of the WJC Executive Committee

L’ebraismo italiano varca la soglia di questa immensa sala assieme ai rappresentanti di numerosi Paesi e oggi siamo qui con una folta e importante rappresentanza dell’ebraismo a livello internazionale. Per la nostra bimillenaria storia – a Roma in particolare e in ogni altra località di comunità italiana – le mura imponenti di questa città vaticana hanno sempre avuto un significato di limite invalicabile. Quel limite fisico che era sostanzialmente teologico, ideologico, di sostituzione e supremazia. Chiusura, pregiudizio, persecuzioni, accuse, conversioni forzate, silenzi. Dal ’65 ad oggi. Oggi 22 novembre quanta strada è stata fatta per dire, per comunicare, per convincere che queste mura possono invece rappresentare solidità e tutela, traducendo chiusura in difesa, persecuzione in riconoscimento, silenzi in parole di dialogo, “Cum nimis absurdum” con visita al Tempio maggiore, sostituendo la Gerusalemme crociata alla Gerusalemme visitata. Facile non è tracciare nelle linee del tempo il passato finito dal passato ancora presente. Ne diamo atto e partecipiamo oggi a numerosi incontri, studi, confronti.
Il significato di questo momento di incontro è altissimo e storico. Si tiene tra vertici in un luogo che rappresenta il cuore del cuore della fede cattolica. Abbiamo espresso parole di attenzione, di rispetto e di fiducia. Parole di responsabilità e maturità. Abbiamo seminato – almeno nelle intenzioni – ancora una volta il campo di grano che alimenta speranza. Ma cosa accade fuori, in ogni altro luogo della terra popolata di fedeli, in ogni altro luogo della quotidianità, in ogni altro giorno dei nostri calendari, tra persone che vivono ignare l’una dell’altra senza alcuna intenzione di incontrarsi? Il legame che si afferma e si intende rafforzare attraverso interpretazioni, encicliche, discorsi, dialogo tra chi avviene? Cosa rappresenta? È sufficiente?
L’apicale, l’istituzionale, il leader, ha certo una responsabilità di relazione e dell’esempio di prima persona, del riconoscimento e della legittimazione. Ma per essere non solo necessaria ma utile, se ancora non sufficiente, non deve esaurirsi in questo momento ma essere capace di arrivare alla periferia – periferia delle abitazioni, delle parrocchie, dei giorni che non sono di celebrazioni formali, periferie dei cuori. E la relazione proprio perché responsabile deve essere sincera. Non timorosa o riverente ma sincera nel rappresentare ciò che ancora stona, ancora disallineato rispetto agli enunciati, ciò che rischia di minare il percorso avviato con tanto impegno e coraggio e di cui certo diamo atto. Viviamo tempi di grandi incertezze, dolore e guerra. Alziamo lo sguardo ogni giorno verso il creatore – “Meayn yavò ezri” (da dove arriverà il soccorso?) – con fiducia ma al contempo abbassiamo le mani con disperazione e senso di impotenza dinanzi alla nuova guerra, alla devastazione sociale, alla povertà e alla miseria. Non basta dire no alla guerra o mettere le parti belligeranti alla pari nella responsabilità del conflitto e quindi della soluzione. La nostra coscienza religiosa deve guidarci anzitutto a prendere la distanza da ogni abuso della religione e da ogni incitamento in nome della religione e della volontà divina alla violenza e all’odio. Questo accadeva, ma accade ancora. Oggi, adesso. Oltre alla cura delle nostre comunità, oltre a sostenere bisogni spirituali e le faticose fragilità sociali, attività che impongono impegno infaticabile, occorre da parte nostra – tutti e a prescindere dall’esser maggioranza o minoranza religiosa – un’azione concorde e collaborativa. Mettere assieme quel bagaglio di valori religiosi per sostenere fabbisogni civili e le emergenze del mondo che ci vive accanto: la solitudine e l’isolamento dei giovani, la violenza sulle donne, la dignità del lavoro, l’ambiente, la speranza di vita attraversando il Mediterraneo, il dilemma lacerante dell’accoglienza e del rimpatrio. Cosa vuol dire in questi casi “agire secondo la legge italiana/secondo i trattati”? Ricordiamoci prima fra tutte la legge divina e l’imperativo della vita.
Ottantaquattro anni fa venivano pubblicati i decreti-legge per la salvaguardia della purezza della razza italiana, isolando ed escludendo gli ebrei da ogni ambito della vita e sottraendoli nuovamente a quei diritti così faticosamente conquistati e concessi con lo Statuto albertino e con il Risorgimento. Anticipata da una ben precisa propaganda, il regime fascista ha così legalizzato la persecuzione quindi la deportazione e lo sterminio che a pochi anni avrebbero seguito e resa buia l’Italia assieme a tutta l’Europa. L’imperativo della memoria – della Shoah e di ogni persecuzione vissuta nei millenni della nostra storia – è per noi chiaro ma è parimenti chiaro che non è rivolto solo a noi. Chiamate ad agire, assieme, a fare rete sono tutte le istituzioni italiane, comunitarie ed internazionali, per fare conoscere quanto avvenuto, assumersi oggi responsabilità consapevoli di quelle passate. Chiamata ad agire è anche la Chiesa cattolica, alla quale parimenti si rivolge la nostra pretesa di coerenza. Capire la Shoah forse è impossibile ma capire i fatti – o meglio conoscere, come ci insegna Primo Levi – è essenziale se si vuole aderire all’imperativo di Memoria. L’apertura degli archivi vaticani ha generato un’aspettativa di conoscenza e si è avviata una fase di studio e ricerca. Forse è presto per trarre conclusioni autorevoli, ma il dolore millenario attende risposte.
L’imperativo “Zachor” non è memoria fine a sé stessa o alla conoscenza lucida del passato ma è anche l’indagine e l’azione sul presente rispetto al crescente antisemitismo. Antisemitismo che succhiando quel veleno dalle profonde radici si trasforma e reinventa, si innesta sulle nuove debolezze e fragilità, trasversale da destra a sinistra, conserva e ripropone il pregiudizio religioso, distorce Israele, sottrae come sempre collettività conviventi al bene, allo sviluppo e alla comune crescita, attraverso lo spettro del pericolo e del nemico inventato.
Il legame e il rafforzamento di un legame di lunga durata è una sfida anche per la comunità ebraica che deve trovare coraggio e fiducia – di conoscere la cultura cattolica, leggerne il pensiero e linguaggio per capire il pieno significato dei cambiamenti maturati e proposti. Non è facile e spesso l’atteggiamento difensivo prevale, perché secoli di prevaricazione sono difficili da eludere. È una sfida e dobbiamo essere guidati da chi è competente.
E se oggi fosse la Chiesa cattolica ad annunciare l’adozione della definizione dell’Ihra sarebbe davvero un gesto – no mi correggo, un atto straordinario di lungimirante consapevolezza della propria autorevolezza, responsabilità e capacità di fare girare la ruota dell’odio antisemita nell’inversa direzione. Condivido il mio sogno ad occhi aperti, ricordando con dolore i quarant’anni dell’attentato al Tempio maggiore di Roma, ricordando le vite sottratte ogni giorno al loro futuro in nome della vendetta di odio etnico o religioso, di semplice convivenza. Un sogno che sento più intenso, forse anche per l’avvicinarsi del periodo festivo – Chanukkàh e Natale, due feste così attese che ci vedono riuniti ed aggregati in preghiera e in famiglia. Che ogni luogo di preghiera – sinagoga, chiesa, moschea, tempio – sia luogo di serena preghiera e mai di eccidio e terrore, che la mia Gerusalemme sia quel luogo di pellegrinaggio e di vita narrato dai profeti, senza che mai un atto di preghiera sia considerato minaccia all’altrui vita e libertà.

Noemi Di Segni, Presidente UCEI