Educazione ebraica,
interrogativi e risposte

È scritto nei Pirqè Avot: “Non ti separare dalla collettività” (2, 4). Mi domando? È questa un’ingiunzione rivolta solo al singolo rispetto alla Comunità di cui fa parte, o non può essere estesa anche alla collettività stessa, rispetto a una collettività ancora più grande di cui dovrebbe far parte? Dieci anni fa fu introdotto su scala mondiale lo “Shabbat Project”, per iniziativa dell’allora rabbino capo del Sudafrica Rav Harris. Tutte le Comunità ebraiche del pianeta avrebbero indetto uno Shabbat collettivo, cui sarebbero stati invitati tutti i membri, anche i meno osservanti. Lo Shabbat sarebbe stato accompagnato da opportune iniziative che avrebbero visto il coinvolgimento di ogni settore della Comunità per 25 ore, in modo che ognuno potesse annoverarsi, almeno una volta all’anno, fra “coloro che meritano la Vita assaporandone il gusto”. La data annuale fu individuata in uno dei primi Shabbatot subito dopo Simchat Torah, in genere Lekh lekhà o Wayerà.
Nei primi anni anche l’ebraismo italiano ha aderito allo “Shabbat Project”, sia pure ridimensionandolo non poco. A Torino, per esempio, ci si limitava per lo più a organizzare un pranzo comunitario con intervento del rabbino: un paio d’ore per “uscire d’obbligo”, senza un entusiasmo tale da segnare vite, ma con dignità. Che dire del seguito? Il Covid ha interrotto la tradizione, costringendoci a sospendere ogni incontro in presenza. Quest’anno non ho più sentito parlare dello “Shabbat Project” nella mia Comunità. Inizialmente avevo creduto che l’iniziativa fosse stata accantonata anche altrove, finché attraverso contatti con l’estero mi è invece giunta notizia che lo “Shabbat Project” è stato regolarmente indetto, organizzato e celebrato il 12 novembre scorso, Shabbat Parashat Wayerà. Il Jerusalem Post ha riferito di oltre un milione di persone coinvolte in tutto il mondo.
In Italia l’unica comunità di cui ho notizia che quest’anno abbia aderito sono stati i Persiani a Milano. In passato mi capitò di assistere allo “Shabbat Project” organizzato da loro e di apprezzarne la cura e l’ampia partecipazione, con l’intervento apposito di rabbini e conferenzieri anche da altri paesi su temi ebraici di interesse generale. Noi invece ci discolperemo della nostra “separazione dalla collettività” d’Israele adducendo i già numerosi impegni di cui è oberata la nostra vita comunitaria. Tutto sommato, si dirà, lo “Shabbat Project” non ci è stato prescritto dal dottore. Anzi, osservare uno Shabbat all’anno quando i restanti cinquanta si vivono poi in modo diverso apparirà inutile e persino ridicolo a molti. Una semplice simulazione, del resto, non può aver nessuna presa sulla vita reale di alcuno di noi. Forse è vero. Senonché noi ebrei italiani abbiamo una capacità unica di invocare il nostro particolarismo nel dare un colpo di spugna a tutto ciò che consideriamo distante dal nostro gusto, dal nostro gradimento e dal nostro interesse. È il “continente” a essere isolato.
In questi giorni si discute all’UCEI sull’educazione ebraica nelle nostre Comunità. Io penso che la tradizionale domanda: “quali scuole per i nostri figli?” debba oggi essere realisticamente ribaltata: “quali figli per le nostre scuole?” Non è un mistero che a guidare le scelte educative delle nostre scuole non sono i presidi, i rabbini, né i consiglieri della Comunità, bensì le famiglie che le frequentano. Si può avere una scuola dotata dei migliori insegnanti al mondo, ma se i genitori si oppongono a una certa politica, o sono quanto meno disinteressati a essa, non otterremo alcun risultato. Il problema è ora aggravato dalla mancanza di nuove famiglie stabili. I matrimoni sono pochissimi, effimeri e quei pochi che si creano sono ormai in gran parte misti. I genitori non hanno spesso alcuna idea della vita ebraica, molti bambini – mi duole ripeterlo – crescono persino esclusi dal Patto di Avraham nostro Padre. Si può decidere di accettarli come se nulla fosse, perché si pretende che questa sia da noi la “normalità”: “così fan tutti”, o quasi. Il diritto ebraico distingue in molti casi fra situazioni “a priori” (le-kha-tchillah), dove un maggiore rigore è richiesto, e situazioni “a posteriori” (be-di’avad) in cui è lecito essere più facilitanti a fronte di una “frittata” già fatta! Ma dobbiamo tener presente che chi converte il be-di’avad in un le-kha-tchillah facendone un metodo uccide l’ebraismo!
La seconda domanda che dobbiamo porci a questo punto è “quale ebraismo per i nostri figli?”. Ha senso impiegare energie a discutere programmi scolastici che prevedono l’insegnamento dell’ebraismo per una, due o tre ore settimanali soltanto? Anche ammesso che la risposta sia positiva (“meglio di niente”, si dirà anche qui; ma fino a quando potremo limitarci ad accettare il male minore? Facciamo forse valere questa scelta anche per l’inglese e la matematica?), dobbiamo per prima cosa interrogarci su quale impostazione di fondo vogliamo dare alle lezioni. Devono semplicemente educare ragazzi e ragazze alla “memoria”, limitandoci ad alcune, poche scadenze annuali considerate davvero irrinunciabili e ai momenti salienti della vita? Insomma un ebraismo “eventuale”, nel senso etimologico del termine. O vogliamo piuttosto qualcosa di più coinvolgente e profondo, che resti assai più a lungo nei loro cuori? Lo “Shabbat Project” è solo un pretesto per un discorso del genere, o meglio un simbolo. Meglio ancora un interrogativo rivolto alle nostre coscienze di genitori, docenti, dirigenti comunitari. Che risposta saremo mai in grado di dare?

Rav Alberto Moshe Somekh

(28 novembre 2022)