Kiev, l’orrore a processo

Uno dei primi processi ai criminali nazisti e ai loro collaboratori si tiene a Kiev, in Unione Sovietica, nel 1946. Il 17 e 18 gennaio finiscono alla sbarra quindici persone: tre generali, otto ufficiali di alto grado e tre di grado inferiore. Il verdetto è annunciato il 28 gennaio. Gli ufficiali di grado inferiore sono condannati a lunghe reclusioni. Agli altri, fra cui Paul Scheer, il capo della polizia di Kiev e Poltava, implicato nel massacro di Babin Yar, è comminata la morte per impiccagione. L’esecuzione avviene il giorno dopo, nella piazza principale. Ad assistere, duecentomila spettatori.
Quel processo oggi torna a noi nel superbo documentario di Sergei Loznitsa intitolato The Kiev trial (Il processo di Kiev) che utilizzando materiali inediti d’archivio ricostruisce i momenti salienti del procedimento – dalle dichiarazioni degli imputati al racconto sconvolgente dei testimoni, alcuni sopravvissuti ad Auschwitz e Babi Yar. Immagine dopo immagine, il film svela l’agghiacciante banalità del male che mai come oggi, mentre una guerra d’invasione devasta l’Ucraina, interroga la coscienza collettiva. Il lavoro nasce mentre il regista lavora alle ricerche per il documentario “Babi Yar. The context” (2021) che ricrea gli eventi che nel settembre 1941 conducono al massacro di 33 mila 771 ebrei nella Kiev occupata dai nazisti. Loznitsa è cresciuto a Kiev, non lontano dai luoghi dove si è consumato l’eccidio e ha spesso sentito parlare della Norimberga di Kiev, come al tempo i giornali definiscono il processo. Quando ne ritrova le immagini si rende subito conto che si tratta di materiali unici.
Sono scene sconvolgenti, di un’intensità che richiama alla mente le celebri registrazioni del processo Eichmann. E non sono mai state mostrate al grande pubblico. Terminato il lavoro precedente, nella primavera del 2021 si mette dunque all’opera per restituire al pubblico una documentazione preziosa. L’obiettivo, come nel suo stile, è realizzare un documentario immersivo. Un film capace di trasportare lo spettatore indietro nel tempo, in quell’aula processuale e in quella tragedia. Un film senza commenti né trama, se non quella dettata dalla stessa realtà dei fatti, che lascia il pubblico libero nelle sue emozioni e conclusioni morali.
“In totale – racconta Loznitsa – abbiamo trovato negli archivi di stato russi e ucraini quasi tre ore di girato. Solo una piccola parte di questo footage era stato finora reso pubblico e usato nel cinegiornale ‘Il processo di Kiev’ diffuso nel 1946. Il resto era stato archiviato e, per quanto sono a conoscenza, non è mai stato visto dagli spettatori”.
I filmati sono stati realizzati dai i cameraman dello Studio centrale documentario di Mosca, che per la durata dell’intero processo lavorano in aula con l’assistenza dei colleghi locali. Quello di Kiev è uno dei venti processi pubblici che fra il 1943 e il 1947 si celebrano in diverse città dell’Unione Sovietica contro i criminali nazisti e i loro complici. I verdetti, che in larga parte si traducono in condanne a morte per impiccagione, si basano sul decreto del Soviet supremo contro “i delinquenti fascisti tedeschi, colpevoli di avere ucciso e torturato la popolazione civile sovietica” e “le spie, i traditori e i loro collaboratori”.
Kiev s’impone però all’attenzione pubblica con un’urgenza particolare. La parziale concomitanza con il processo di Norimberga, iniziato il 30 novembre 1945, fa sì che il processo attiri l’interesse della stampa di tutto il mondo e l’atrocità dei massacri compiuti dai suoi imputati è spaventosa. Il corrispondente del New York Times, Brooks Atkinson, dipingerà fra sdegno e incredulità i “macellai nazisti” che senza scrupoli hanno torturato e assassinato innumerevoli bambini e civili. Le riprese in tribunale hanno un chiaro intento propagandistico. I contenuti della sentenza erano di solito noti in anticipo ma ogni processo, nota Loznitsa, era allora occasione per le autorità di fare una dichiarazione o ribadire un principio. Tanta parte del procedimento era inscenata dunque anche a favore di telecamera. Eliminata metà del girato, il regista lo riporta ai suoi contenuti essenziali – le persone: nella prima parte gli esecutori e i criminali, nella seconda i testimoni. In un intenso bianco e nero, il film porta così in scena l’aula affollata di uomini e donne, l’espressione tesa e attenta; le guardie armate di baionetta e il colbacco in capo; il volto rigido degli imputati; i giudici dietro il tavolo. E poi l’infilata dolorosa delle testimonianze – i sopravvissuti che snudano il braccio a mostrare il numero tatuato, le parole che faticano a dire l’immensità dell’orrore, le lacrime di chi ha visto ed è lì per raccontare. In una tensione drammatica quasi insopportabile, sottolineata dall’assenza di dialoghi, The Kiev trial non esita davanti alla scena finale dell’esecuzione.
“La scena dell’esecuzione pubblica dei criminali nazisti in piazza Kalininin (oggi si chiamata piazza dell’Indipendenza) – spiega Loznitsa – è di particolare importanza perché aggiunge un’ulteriore dimensione all’intera vicenda. È raccapricciante come lo sono le scene in cui confessano i crimini commessi. Penso sia l’episodio che rende il film così rilevante introducendo una moltitudine affascinante di questioni – dai modi in cui la legge e la giustizia operano nella società umana ai modi in cui la società umana stessa continua a operare…”. Poiché i materiali non sono stati visti in precedenza, continua, “ho sentito che era importante lavorare con questi filmati e riportarli in vita nella loro interezza, ricostruendo le diverse fasi del processo e culminando nella scena dell’esecuzione”.
“Come sempre, l’obiettivo è stato di restaurare sia l’immagine sia il suo suono, così da ottenere la migliore qualità possibile. E come nei miei precedenti film di montaggio basati su footage d’archivio degli anni Trenta e Cinquanta, The trial, State funeral e Babi Yar, sono ricorso a sovrimpressioni per fornire informazioni sui luoghi, i personaggi e i fatti”.
La presentazione di The Kiev trial è avvenuta in piena guerra: un conflitto che non ha risparmiato nemmeno il monumento alla Memoria a Babi Yar. “Quando ho iniziato il lavoro non potevo immaginare, neanche nel peggiore dei miei incubi, che l’Ucraina sarebbe di nuovo diventata un campo di battaglia e che civili innocenti sarebbero stati un’altra volta assoggettati a una violenza brutale. Solo che questa volta i barbari invasori indossano uniformi russe”, dice Loznitsa. Nel corso della sua carriera il regista, che da tempo vive a Berlino, ha documentato a ripetizione gli orrori della storia, la follia del genere umano, la sua incapacità di apprendere dal passato. E in questo senso, sostiene, l’invasione dell’Ucraina è l’ennesima dimostrazione dell’ostinazione tragica dell’umanità a ripetere i medesimi errori. “Siamo stati ributtati indietro di ottant’anni e sembra che nessuna delle lezioni della nostra storia recente sia stata imparata… Mi auguro con tutto il cuore che non si debba attendere troppo a lungo prima che i colpevoli dei crimini contro l’umanità commessi oggi in Ucraina siano assicurati alla giustizia”.
I processi ai criminali nazisti, sostiene, dimostrano che le atrocità non si possono prevenire. “Il risultato, l’esecuzione pubblica, non provoca altro che orrore”. La speranza è che indichino però la via da seguire nel futuro, dopo la guerra. Ristabilire giustizia e dimostrare che certi crimini possono venire puniti e lo saranno – conclude – è fondamentale per l’esistenza della società: “È una speranza vaga il futuro. Eppure è una forma di speranza. È qualcosa che l’umanità può fare”.
Daniela Gross
(29 novembre 2022)