Sogno

Dante, nel raccontare l’inizio del suo viaggio ultramondano, ritiene opportuno precisare che non è in grado di spiegare come mai gli capitò di entrare nella selva oscura, perché, nel momento in cui abbandonò la “retta via”, per trovarsi quindi smarrito nella selva, “tanto era pien di sonno” (Inf. I. 11). Il poeta racconta di essere stato sopraffatto dall’angoscia nel vedersi perso in quella “selva selvaggia e aspra e forte,/ che nel pensier rinnova la paura” (5-6), e di essersi rincuorato solo alla vista della cima di un monte, già illuminata dai raggi del sole, una visione che gli infonde coraggio e speranza, prima di essere nuovamente spaventato dalla vista delle tre fiere minacciose, che gli sbarrano la strada.
Se ci si fa caso, il poeta non racconta di essersi “svegliato” dal sonno, tanto da fare sorgere nel lettore la legittima domanda se tutto il suo racconto non sia altro che la narrazione di un sogno. Un sogno molto lungo, verrebbe da dire, se in esso il poeta ha la possibilità di incontrare centinaia di spiriti, e di intrattenere con loro lunghi e dettagliati dialoghi, rimastigli così impressi nella memoria da poterli poi precisamente trascrivere una volta tornato allo stato di veglia. Ma a tutti noi è capitato di fare sogni lunghi e dettagliati, ricchi di particolari, narranti vicende apparentemente succedutesi in un lungo arco temporale, e di esserci accorti con meraviglia, al risveglio, che tutto era durato, in realtà, pochi istanti. I meccanismi onirici del nostro cervello sono e restano misteriosi: al giorno d’oggi, con tutte le scoperte della psicanalisi e della neurologia, non credo che ne sappiamo molto di più rispetto ai tempi di Dante.
Abbiamo parlato, nelle scorse puntate (24/8 e 31/8), delle analogie tra le “tre fiere” dell’Inferno e le “quattro bestie” rappresentate nel libro di Daniele, dicendo che la derivazione delle prime dalle seconde, sul piano figurativo, è evidente, mentre i significati sono certamente da considerarsi diversi. Ma quelli rappresentati in Daniele non sono propriamente dei “sogni”, quanto delle “visioni notturne”, presumibilmente in stato di veglia, o, perlomeno, di semi-coscienza. Certamente dei sogni, invece, sono quelli di Giuseppe e del Faraone, narrati nel libro della Genesi, e la loro importanza, com’è noto, è assolutamente cruciale nella storia di Israele. Senza la sua capacità di interpretare i sogni, Giuseppe non sarebbe stato liberato, non avrebbe potuto accogliere, perdonare e salvare i suoi fratelli, e assicurare così un futuro al suo popolo. Si può dire che Giuseppe è un anticipatore di Mosè, ma, mentre al secondo il Signore fece ascoltare direttamente la sua voce, al primo parla solo in un modo velato, attraverso dei sogni, perché non era ancora arrivato il momento della sua Rivelazione, che sarebbe avvenuta solo in seguito, sul Monte Sinai. Così come è in un sogno che Giacobbe vede la famosa scala che dalla terra porta al cielo, sulla quale salgono e scendono gli angeli (Gen. 28. 10-22). Un’immagine che certamente Dante ha avuto presente per la costruzione fantastica del suo viaggio, che conduce anch’esso dalla terra al cielo. Si può dunque dire che l’intero tragitto del poeta sia, anch’esso, un sogno, come quelli di Giuseppe e Giacobbe? O, magari, una visione, come quella di Daniele?
Cicerone, nel De divinatione, critica coloro che credono di scorgere dei messaggi divini nei sogni, affermando che nessuna visione apparsa nel sonno possa ritenersi proveniente dalla volontà degli dèi (2. 124-126). Ciò che noi vediamo da svegli, argomenta il retore, ci appare in modo chiaro e nitido, mentre quello che vediamo in sogno ci si rivela in forme oscure e confuse. Se gli dèi avessero voluto davvero aiutarci, mandandoci dei messaggi e dei segnali, non avrebbero fatto meglio a inviarceli quando siamo svegli, e siamo in grado di meglio comprenderli? I sogni, perciò, non sono messaggi divini. Un’argomentazione, come si vede, non priva di logica, anche se freddamente razionalistica, che, applicata al poema dantesco, porterebbe a escludere l’idea del viaggio di Dante come un sogno. E, in effetti, ritengo che tale viaggio non possa essere paragonato a un sogno, né a una mera visione, ma non per le considerazioni di Cicerone. Nei sogni e nelle visioni, infatti, chi li vive o li riceve lo fa passivamente, semplicemente raccogliendo un messaggio che appare inviato da altri (siano essi gli dèi, gli spiriti dei defunti, il Dio unico, il subconscio o altro ancora). Non prende decisioni, non esercita una volontà, non dà giudizi, anche quando appare protagonista della scena. È solo uno spettatore, un recettore passivo. Dante, invece, è sempre un personaggio attivo, prende iniziative, sceglie chi interrogare e quali domande fare, elabora da solo, in piena autonomia, i giudizi morali su ciò di cui viene a conoscenza. Non si limita a ricevere un messaggio, ne manda anche, e tantissimi. Bisogna ritenere, pertanto, che egli, dentro la selva oscura, si sia svegliato dal sonno che lo avvolgeva quando vi era entrato. Il suo è un viaggio fantastico, ma compiuto da una persona sveglia, perfettamente lucida, vigile e cosciente.

Francesco Lucrezi

(30 novembre 2022)