Talmud tradotto in italiano,
nelle librerie un nuovo trattato
Il progetto di traduzione del Talmud festeggia un nuovo traguardo: la pubblicazione di Sukkà (Capanna), l’ottavo trattato ad andare in stampa dall’inizio di questo impegno congiunto che vede al lavoro istituzioni ebraiche, scientifiche e dello Stato italiano. Curato dal rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma e presidente del Progetto Talmud, il trattato si incentra su ritualità e consuetudini di Sukkot. La terza, viene evidenziato, “delle tre feste di pellegrinaggio prescritte dalla Torà, dove è ripetutamente citata e ripresa in altri libri biblici”. Un trattato per molti aspetti tecnico, ma che ha anche “un grande respiro storico con ricordi di vita vissuta al cuore dell’antica pratica religiosa ebraica”.
Sukkot, sottolinea in un suo testo introduttivo il rav, si colloca in un momento particolare del calendario anticipando l’arrivo dell’attesa stagione delle piogge e chiudendo il ciclo agricolo annuale. Un appuntamento che nel suo simbolismo “comprende un legame con la terra e l’agricoltura”, ma anche “un richiamo storico generico al periodo della permanenza nel deserto”. È quindi, per molti aspetti evocati dal simbolo stesso della capanna, “il momento in cui si riflette sulla debolezza e sulla precarietà dell’esistenza”. Quasi paradossalmente però è anche occasione “di gioire e far festa, confidando nella protezione divina”.
Nel primo capitolo di Sukkà, pubblicato come i precedenti trattati da Giuntina, si parla della costruzione della Capanna. E pertanto si affronta “quali siano le sue dimensioni, altezza massima e minima, base minima, forma; quante pareti debba avere, se debbano essere complete o se bastino dei pali; come deve essere il tetto; se possa stare sotto a un’altra struttura o un albero; se si possa usare una sukkà fatta per scopi differenti dalla festa; con quali materiali si possa fare il tetto, e se si possano consentire spazi vuoti e materiali non vegetali”. Il secondo continua l’esame delle regole sulla sukkà, “con questioni legate alla modalità di costruzione; poi passa a discutere su come si debba adempiere l’obbligo, quanti pasti vadano consumati e di che tipo, e chi è esentato dall’obbligo”. Il terzo si incentra invece sul precetto delle quattro specie vegetali. Qui, indica il rav, “bisogna identificare quali siano le specie indicate, quanti rami o frutti debbano essere presi e di quali dimensioni, minime e massime; in quali condizioni fisiche debbano essere; se debbano essere di proprietà esclusiva o possano avere altre proprietà e origini, se debbano essere legate insieme o no e in che modo, dopo averle prese, si adempia il precetto”. Con il quarto capitolo l’attenzione si sposta su un’altra prospettiva: l’evocazione dei riti “ai tempi in cui esisteva il Santuario, in che modo lo Shabbat cambiava le regole e cosa comportava il passaggio da Sukkot all’altra festa nell’ottavo giorno, Sheminì Atzeret”. Il quinto e ultimo approfondimento completa questo quadro. Erano momenti di gioia e intensità speciale, suggerisce il rav Di Segni: “La notte c’era una illuminazione straordinaria; di giorno una solenne processione accoglieva l’acqua che serviva per la libagione al suo ingresso nel Santuario”.