L’Ihra e il ricordo di Boris Pahor
“Testimone consapevole del suo ruolo”

A contraddistinguere l’ultima riunione plenaria dell’International Holocaust Remembrance Alliance un omaggio allo scrittore triestino di lingua slovena Boris Pahor. Nell’ambito di una sessione dedicata al lascito del grande intellettuale, scomparso di recente all’età di 108 anni, la giornalista di Pagine Ebraiche Daniela Gross ha tra gli altri portato una sua testimonianza. Ricordando in particolare gli incontri con Pahor maturati nell’ambito del laboratorio giornalistico Redazione Aperta da cui sarebbe poi scaturita una significativa e toccante intervista. Un colloquio della “durata di due ore, indimenticabile per toni e temi” ha evidenziato Gross, soffermandosi sulla preparazione dell’incontro, il rapporto instauratosi con l’autore, gli spunti più rilevanti emersi.
“Sono nato in via del Monte 13, in una casa alla sommità della salita su cui si trovava anche allora la scuola ebraica, davanti al vecchio cimitero ebraico. La sera mia madre stirava alla luce del lampione appeso a illuminarne l’entrata”, racconterà Pahor a Pagine Ebraiche. Per poi aggiungere: “Dei miei anni di ragazzo ricordo invece le passeggiate nel ghetto, prima che venisse abbattuto, con le sue piccole rivendite e quell’odore inconfondibile in cui il profumo del caffè si mischiava agli effluvi delle friggitorie di pesce. E poi i libri…”. Elaborando la sua esperienza di vittima di persecuzione e deportazione, avrebbe invece sottolineato: “Nei 14 mesi che trascorsi nei campi incontrai un solo ebreo, all’infermeria del campo di Dora. Qualcosa mi suggerì che l’uomo malato nel letto accanto al mio poteva essere ebreo. Glielo domandai e mi rispose semplicemente ‘sì, purtroppo’. Fu l’unico contatto che ebbi allora con il mondo ebraico. Anche se so che vi furono alcuni ebrei che ebbero la fortuna di venire internati nei campi di lavoro anziché in quelli di sterminio. Ad esempio Imre Kertész, che incontrai molti anni dopo la guerra a Parigi”. Due universi paralleli, sosteneva Pahor: “In un certo senso è stato così. D’altronde dal punto di vista dei nazisti le motivazioni erano diverse: noi politici eravamo colpevoli di esserci organizzati per lottare contro di loro, gli ebrei erano colpevoli solo di essere tali”. Nel soffermarsi su questo specifico punto, Gross ha spiegato come Pahor rifiutasse “di tracciare un paragone tra la sua esperienza e quella ebraica, insistendo sulle sofferenze uniche dei prigionieri”. Non “uno sforzo revisionista come potrebbe sembrare: Pahor infatti era profondamente consapevole della sua responsabilità come testimone”. E anche per questo non faceva mistero delle sue preoccupazioni “per le strumentalizzazioni politiche del passato, il risorgere dei regimi totalitari, l’educazione delle nuove generazioni”.

(Nell’immagine: l’intervista di Daniela Gross a Boris Pahor nel disegno di Giorgio Albertini)