La meta

Abbiamo trattato, nella scorsa puntata, del modo in cui la figura di Mosè è richiamata nella Commedia, dove è evocata quattro volte (alle quali si dovrebbe però anche aggiungere la citazione implicita, di cui abbiamo già parlato, contenuta in Purg. XVIII. 134, ove si parla degli ebrei come “la gente a cui il mar s’aperse”: e fu Mosè a fare aprire quel mare), in tutte e tre le cantiche. E ci siamo quindi chiesti in che misura il viaggio di Dante abbia avuto come modello d’ispirazione quello del profeta, così come gli altri tre viaggi più famosi tramandati dalla tradizione dell’Occidente, ossia quelli di Abramo, Ulisse ed Enea. 
Credo che tracciare un parallelo tra questi cinque viaggi (Abramo, Mosè, Ulisse, Enea, Dante) possa aiutare non solo a cogliere il senso del messaggio dantesco, ma anche – che è la cosa che direttamente ci interessa – del legame di esso nei confronti dell’ebraismo.
Si può dire che ogni narrazione (nel mondo antico, ma anche, in buona parte, in quello moderno e contemporaneo) abbia sempre rappresentato il racconto di un viaggio, di uno spostamento. Se un soggetto sta fermo e non si muove, in genere non c’è niente da raccontare. I libri di storia, per lo più, non sono altro che una sequenza di racconti di movimenti, migrazioni, navigazioni, spostamenti di uomini, famiglie, popoli, eserciti. Se li svuotassimo di tutte queste narrazioni (dei movimenti di Alessandro, Annibale, Scipione, Cesare, Traiano, Colombo, Napoleone, Garibaldi, delle armate di Hitler, Stalin, Roosevelt, Churchill ecc.), resterebbe ben poco. E lo stesso vale per i testi di mitologia (Agamennone, Didone, Giasone, Teseo…), così per molti romanzi di fantasia (Verne, Salgari, Melville, Collodi…). Basta guardare le carte geografiche di oggi, d’altronde, per renderci conto che almeno la metà dei Paesi in esse rappresentati sono frutto di gigantesche migrazioni, senza le quali il mondo attuale non esisterebbe. 
La storia dell’umanità è iniziata con l’uscita di Adamo ed Eva da Gan Eden, quindi con una migrazione. Tutto si muove, senza il movimento non c’è storia e non c’è vita. La forza e la vitalità delle culture, delle lingue, delle religioni si misura dalla loro capacità di viaggiare, di approdare su nuove sponde. 
Credo che, nel secolo scorso, l’idea del viaggio, del movimento degli uomini e delle idee abbia conosciuto due novità – almeno apparenti – rispetto alle epoche passate. 
La prima è che il viaggio non deve essere necessariamente uno spostamento fisico, in quanto si può anche viaggiare mentalmente, restando fisicamente fermi. Si tratta di una grande scoperta, in particolare, di Freud, a lui ispirata, tra l’altro, dalla tragedia greca.  I viaggi nell’inconscio sono lunghi, difficili e perigliosi, ma non implicano un movimento fisico. Ma forse, come vedremo, non si tratta di una novità assoluta. 
L’altra novità è il fatto che il tormentato “secolo breve” ha tolto l’illusione che il viaggio debba avere necessariamente una meta, un obiettivo preciso. I viaggi di Abramo, Mosè, Ulisse, Enea, Dante, diversissimi tra loro, hanno tuttavia in comune il fatto di avere un approdo, una destinazione, anche se non necessariamente un lieto fine. Il viaggio di Ulisse – di cui abbiamo già parlato -, in Omero e in Dante, ha due finali opposti, ma comunque un esito chiaro. Lo stesso non si può dire per la poesia di Leopardi, Saba, Celan, Montale, così come per la scrittura di Kafka, Joyce, Morante, Philip Roth. La letteratura contemporanea è fatta in gran parte di racconti di smarrimenti, di viaggi senza arrivo. Teseo, spesso, si perde nel labirinto, non trova il minotauro, non salva nessuno.
Ma, come ho già osservato in una delle scorse puntate, sarebbe molto riduttivo vedere nella Commedia una parola “fine”, e tanto meno un “happy end”. Così come, nella Meghillà di Ester, è scritto che “non c’è un prima e un dopo nella Torah”, anche la Commedia ha un’evidente dimensione atemporale. Anche se il viandante torna “a riveder le stelle”, ciò che ha visto non è passato, e continuerà a inseguirlo. Come hanno detto, in vario modo (qualcuno, non con la parola, ma col gesto, ancora più eloquente, del suicidio), molti dei sopravvissuti ad Auschwitz, dai campi non si esce mai definitivamente. E la stessa cosa può dirsi da chi ritenga o pretenda (con temeraria audacia) di avere visitato l’Inferno. 
Cosa ha in comune, il viaggio della Commedia – dal punto di vista del poeta -, e cosa di diverso rispetto agli altri quattro viaggi? Cosa hanno in comune e cosa di diverso le mete, le destinazioni degli stessi? 
Si tratta di una domanda che investe il rapporto di Dante con l’essenza di tutta la cultura classica e, soprattutto, di quella civiltà ebraica che, da Abramo in poi, è sempre stata lo spazio del tragitto, dell’attraversamento.
Cercheremo di rispondere nelle prossime puntate.

Francesco Lucrezi