“Zia Rita, artista della scienza”

Un paziente lavoro di lettura di centinaia di lettere che Ri, come chiamavano da piccola Rita Levi-Montalcini, spediva alla famiglia. Soprattuto le missive mandate al padre Adamo, ingegnere trasferitosi da Torino a Bari per progettare fabbriche di ghiaccio, ma anche i carteggi con i fratelli Gino, Anna e la gemella Paola. Un enorme patrimonio di documenti, a cui si sono aggiunti foto, pagelle, giornali dell’epoca, oggetti che raccontano una storia personale, ma inquadrano anche un pezzo importante di Novecento italiano. Per ricordare nel decennale dalla sua scomparsa la zia Rita, la nipote Piera Levi-Montalcini si è messa al lavoro. Carte alla mano, ha ripercorso l’infanzia della celebre scienziata, ricostruendo il percorso che la portò da un laboratorio clandestino nella Torino anni Quaranta alle straordinarie scoperte e a conquistare – prima e al momento unica donna italiana – il Nobel. Ne è nato un libro, firmato assieme ad Alberto Cappio, responsabile delle attività di ricerca dell’archivio della famiglia Levi-Montalcini. Il volume si intitola Un sogno al microscopio. Il viaggio verso il Nobel di Rita Levi-Montalcini. È rivolto ai ragazzi e si apre con alcune frasi che che sono già di per sé una piccola lezione. “Chi studia sa che non vincerà mai, anche se gli assegnano il Nobel. Ma sa anche che non può perdere”. E ancora: “La testa. C’è chi l’abbassa, chi la nasconde e chi la perde. Io preferisco chi la usa”. Oppure: “Io credo nell’etica, senza, la vita non vale nulla, nemmeno di essere vissuta”. Aforismi che riassumono il pensiero di un’artista della scienza, come la definisce la nipote, di cui c’è ancora molto da scoprire. Un patrimonio che Piera Levi-Montalcini cerca di diffondere attraverso progetti editoriali, lavori con le scuole, iniziative di ricerca. E, come spiega a Pagine Ebraiche, vorrebbe che venisse anche strutturato in un vero e proprio centro studi.

Come è stato rimettere mano agli archivi di famiglia?
Un grande viaggio. C’è una quantità immensa di lettere che i figli scrivevano al padre e tra di loro. Parliamo di circa tremila documenti, che vanno dagli anni Venti agli anni Trenta con il buco poi del periodo della guerra. Riprendere in mano quelle carte mi ha restituito molti pezzi di storia dell’epoca e ovviamente di famiglia. Viene fuori il profondo legame, l’affetto, la complicità tra genitori e fratelli rimasti saldi nonostante i tempi difficili, la violenza delle leggi razziste e della guerra. Nel buio del periodo del conflitto e delle persecuzioni c’è ad esempio una lettera che zia Rita, che non ha più informazioni su nessuno, invia a una banca in cui sa che i fratelli hanno un conto corrente e chiede che sia loro consegnata. Nella lettera c’è tutto il pathos della zia che dice ‘di voi non so più niente, non so se siete vivi, non so se siete morti, non so cosa vi è capitato, vi prego fatemi avere notizie’”.

Ci sono parti ancora da scoprire di questo archivio di lettere?
Certo. Io ho letto solo una parte, ma dovrebbe essere studiato tutto e valorizzato. Perché poi vengono fuori delle chicche come la zia Rita che dà la maturità cucendo una camicia da donna. E uno si immagina come una futura Premio Nobel possa dare un esame di quel tipo e capisce meglio non solo la sua figura, ma il contesto storico in cui si muoveva, le difficoltà affrontate.

Dal libro esce anche il ritratto di una giovane Levi-Montalcini con qualche difficoltà a scuola.
Sì, anche Rita aveva i suoi alti e bassi e abbiamo scoperto con stupore una pagella delle medie in cui aveva preso un cinque. È un esempio significativo per i giovani: non sempre scopriamo la nostra strada subito. E del resto la zia a lungo non sapeva quale futuro ritagliarsi. E fu l’ultima a diventare famosa: per molto tempo papà e la zia Paola erano i volti celebri della famiglia. Uno su tutti i libri di architettura, l’altra esposta ovunque nelle mostre d’arte. Ma mio padre sapeva che zia Rita avrebbe avuto successo.
Lei era un’artista della scienza.

Il legame tra i fratelli era dunque forte. Può essere un tema di studio?
Era una famiglia in cui si conversava parecchio. E c’è un patrimonio di scambi e di materiale legati ai Levi-Montalcini che vorrei venisse valorizzato. Sarebbe da raccogliere in maniera sistematica e il mio sogno è fare un centro studi, che sia dedicato a zia Rita, ma anche al legame con i suoi fratelli: che sia a Torino, a Saint Louis o in Israele. Per me va bene ovunque, basta che si faccia questo luogo dove poter lavorare su tutto l’universo familiare: vorrei portarci anche i mobili di mio padre ad esempio, non solo le carte, perché fanno parte di un mondo del passato che non tornerà. Tra l’altro sono convinta che tutti dovrebbero recuperare le proprie storie di famiglia, gli oggetti del passato e fare un proprio archivio. Perché arriverà un giorno in cui tutto sarà disperso e dimenticato. E invece si potrebbe fare una rete di archivi di materiali collegati fra loro. Penso ad esempio a tutti i rapporti che mia zia ebbe negli Stati Uniti con molti ebrei costretti come lei a fuggire dall’Europa nazifascista. Ci saranno sicuramente lettere e scambi al riguardo. E immagini l’interesse di mettere tutto in relazione.

Attorno a Rita Levi-Montalcini c’è ancora molto affetto. Lei ha costruito una rete con le scuole dedicate a sua zia ed è impegnata nella promozione della ricerca scientifica. Ci sono altri progetti in cantiere?
A 101 anni la zia mi disse ‘se quello che penso è vero prenderò il secondo Nobel’. Purtroppo morì l’anno dopo, ma in un cassetto del mio cervello quell’idea è rimasta conservata. E ora cerco un gruppo di ricerca che possa portarla avanti.

Daniel Reichel

(18 dicembre 2022)