Karl Marx e l’antisemitismo,
premiato lo studio di Manuel Disegni

“Per comprendere la natura e le cause dell’antisemitismo moderno è necessario conoscere le strutture della società capitalistica in cui si è generato. Questo è tanto ovvio come il fatto che lo studio di una patologia deve fondarsi su adeguate conoscenze anatomiche. Ma è vero anche il contrario: con la mia ricostruzione della vicenda biografica e intellettuale di Karl Marx credo di aver mostrato che proprio un’analisi attenta del fenomeno antisemita consente un accesso privilegiato alla comprensione generale di come funziona la società in cui viviamo”. Ad evidenziarlo Manuel Disegni, docente a contratto all’Università di Torino e giornalista professionista formatosi nella redazione UCEI, durante la cerimonia di consegna del Premio Giancarlo Doria per la sua tesi di dottorato di prossima pubblicazione su “Karl Marx e l’antisemitismo moderno. Genesi e sviluppo della teoria critica della società borghese e della sua questione ebraica”. Il premio, dedicato a un giovane studioso e documentarista scomparso prematuramente nel 2010, gli è stato consegnato dal vicepresidente della Camera dei deputati Sergio Costa. Ad intervenire anche Giovanni Rizzoni, Fulco Lanchester e Marco Debenedetti.
Proponiamo di seguito un estratto dall’intervento di Manuel Disegni su Marx e l’antisemitismo.

Karl Marx e l’antisemitismo

Dal punto di vista della coscienza liberale che dominava il suo secolo, l’antisemitismo era una superstizione medievale ormai debellata, un residuo del mondo cristiano e feudale destinato a scomparire del tutto nel nuovo mondo fondato sulla libertà e l’eguaglianza giuridica di tutti gli individui. Marx non era d’accordo con questo punto di vista. La mia tesi è che questo disaccordo sia decisivo in tutte le fasi di sviluppo del suo pensiero, dalla critica giovanile alla filosofia tedesca fino alle critiche più tarde al socialismo francese e all’economia politica dei classici britannici. Con gli antisemiti Marx ebbe a che fare per tutta la vita, soprattutto all’interno del suo stesso campo politico. Tutti gli ambienti in cui fu attivo erano attraversati dalle più moderne tendenze antisemite. Non mancavano loro rappresentanti fra i filosofi atei e rivoluzionari della sinistra hegeliana, né nei movimenti radicali e democratici del ‘48, né fra i cospiratori insurrezionalisti della bohême parigina, né nei grandi partiti socialdemocratici della seconda metà del secolo, né ai più altri livelli dirigenziali della Prima Internazionale. Non di rado fu la stessa, influente persona di Marx oggetto di attacchi e vituperi antisemiti da parte di rivali. Si pensi ai suoi numerosi e aspri contrasti con figure quali Feuerbach, Proudhon, Bakunin, Bruno Bauer, Joseph Dietzgen, Alfred Wagner, per menzionare solo alcuni dei più significativi.
Le radici ideologiche del fascismo e nazionalsocialismo affondano nel XIX secolo, ma non solo nelle tradizioni reazionarie e nazionaliste dell’anti-illuminismo. Vanno cercate anche (lo ha mostrato Zeev Sternhell) nei movimenti classificati come progressisti o di sinistra. Molti degli elementi più originali delle ideologie di destra del Novecento sono maturati nel secolo precedente nel pensiero di uomini e donne radicali, votati al progresso, animati sovente da ideali di giustizia, uguaglianza e libertà. L’antisemitismo moderno non presenta una chiara appartenenza di classe o di partito, ma la strabiliante capacità di coinvolgere tutti gli strati della società borghese e il suo intero spettro politico. È – come si suol dire – rossobruno fin dall’inizio, anzi: è forse il vero punto archimedeo di ogni rossobrunismo. Sino a oggi la sinistra non ha saputo fare i conti fino in fondo con questo aspetto della sua storia, e in ciò potrebbe risiedere una ragione non secondaria della sua attuale miseria; certamente una manifestazione di sudditanza culturale e politica nei confronti di forme di pensiero contrarie ai suoi scopi e a ogni emancipazione. In tal senso, l’autocritica del socialismo ottocentesco formulata da Marx offre non solamente delle solide fondamenta per lo studio dell’antisemitismo di destra del secolo successivo e della Shoah. Tornare a Marx mi sembra anche una priorità del programma di una sinistra che volesse riflettere sulla propria storia e contrastare l’antisemitismo al proprio interno e nel mondo.
Per parlare di Marx e antisemitismo bisogna parlare del rapporto fra capitale e antisemitismo. In realtà se ne parla assai poco: sia nel marxismo, sia nella ricerca e nel dibattito sull’antisemitismo. Eppure sembra evidente che non si possono comprendere la natura e le cause dell’antisemitismo moderno senza conoscere le strutture fondamentali della società capitalista entro cui si è generato. È come dire che lo studio di una patologia deve fondarsi su adeguate conoscenze anatomiche: è ovvio. Il caso di Marx tuttavia insegna che è vero anche l’inverso: che riflettere sull’inattesa rinascita dell’antisemitismo nel mezzo del XIX secolo illuminato, liberale, industriale, può aiutare a comprendere che cos’è e come funziona quel contesto generale che chiamiamo capitalismo.
Di solito, però, quando si parla di Marx e antisemitismo non lo si fa in questi termini. Nella forma in cui si protrae almeno dal secondo dopoguerra e in cui tuttora gode di considerevole risonanza, la discussione è dominata dall’opposizione di due convincimenti o partiti contrapposti. Secondo quello egemone, Marx era antisemita. Secondo l’altro, Marx non era antisemita. Il difetto di questo dibattito è che non è informato da un concetto scientifico di antisemitismo. A dispetto del loro contrasto, i due i partiti si incontrano in un comune presupposto dogmatico, il quale può essere enunciato all’incirca così: l’antisemitismo è l’avversione per gli ebrei. Al cospetto di una tale certezza, la questione delle condizioni storiche e del significato sociale dell’insorgere, al tempo di Marx, di una forma nuova e secolare di antisemitismo, sembra non avere alcuna rilevanza. Prigioniera di questa nozione dogmatica di antisemitismo, la discussione su Marx ruota da oltre settant’anni e con poche eccezioni intorno alla domanda se egli gradisse o meno gli ebrei, la quale è di dubbio (anche se non apparentemente esiguo) interesse, in quanto non promette di contribuire a una miglior comprensione né della teoria marxiana, né del fenomeno antisemita e dunque neanche dei loro rapporti.
Tipicamente, la discussione si concentra sui pochi luoghi dispersi nell’opera di Marx in cui si trovano riferimenti a cliché più o meno tradizionali e più o meno sprezzanti sugli ebrei. La strategia argomentativa del partito denunciatore consiste in buona sostanza nell’estrapolare singole frasi dal testo che appaiono problematiche e addurre queste citazioni come prova della tesi che fosse “antisemita” o addirittura – come più di un commentatore suggerisce apertis verbis – un precursore ideale del genocidio. Il metodo è del tutto astorico: si presuppone una nozione prefabbricata, astratta e universalmente valida di antisemitismo e la si pone arbitrariamente di fronte alla realtà, alla storia, in particolare alla storia delle idee e della cultura, col fine di sussumervi quanto più materiale possibile. In questo modo è possibile classificare come antisemiti autori come Dante, Shakespeare, Spinoza, Kant, Hegel, Marx o Freud (e volendo anche gran parte delle barzellette ebraiche più comuni). Più in generale, è l’intero dibattito odierno sull’antisemitismo a procedere per casistica. Identifica il suo compito principale nel decidere chi o cosa sia antisemita, chi o cosa non lo sia. È o non è antisemita quel politico, quella giornalista, quel calciatore, quell’ubriaca al bar che ha chiamato gli ebrei “spilorci” o ha scherzato sulla forma del loro naso? E se ha detto che Israele è uno Stato razzista, George Soros un poco di buono o Woody Allen un regista sopravvalutato? È antisemita o no?
L’antisemitismo però non è solo un’opinione soggettiva o un sentimento privato. È sempre e innanzitutto un fenomeno collettivo. Robinson Crusoe poteva forse esser razzista nei confronti di Venerdì, ma non antisemita. La nascita e la diffusione dell’idea che si potrebbe vivere più liberi, più uguali e più felici in un mondo senza ebrei, andrebbero analizzate come un fenomeno storico e collettivo, a maggior ragione se il fine pratico è quello di contrastarle. Invece ci si limita a sospettare, rilevare, biasimare l’antisemitismo come una colpa individuale. Tale considerazione astratta e censoria del problema rischia di avere pochi benefici.
Dal canto suo, il partito apologetico sminuisce. Molti marxisti tentano imbarazzati di giustificare o relativizzare le citazioni malfamate. Sono solo battute ironiche – dicono – magari un po’ triviali ma certamente marginali e da non prendersi sul serio, facezie marginali estranee al nucleo del pensiero di Marx.
Se di tanto in tanto gli è capitato di indulgere alla retorica antiebraica allora in voga, si è trattato dell’errore di un uomo che non poteva avere il minimo sentore delle forze nefaste che in quella voga si annunciavano. – È certamente vero che la gran parte dei riferimenti all’ebraismo e ai pregiudizi sul suo conto che si trovano negli scritti di Marx hanno carattere ironico. Ciò però non autorizza il lettore a minimizzare il loro significato o a non prenderli sul serio. Se non ci si vuole limitare a ridere al momento giusto, ma anche sapere perché ride, non basta riconoscere le battute di spirito. Bisogna anche capirle.
D’altronde, chi frequenta gli scritti di Marx sa bene che all’uomo piaceva scherzare, soprattutto quando c’era di mezzo la religione; e sa anche che quando scherzava, molto spesso, era serissimo.

Manuel Disegni