Il Dossier di Pagine Ebraiche
In viaggio tra gli archivi

“Gli archivi sono la chiave d’accesso alla storia”. A dirlo uno dei punti di riferimento dell’archivistica italiana, Claudio Pavone. Quando infatti si parla di archivi il nome di Pavone, storico e appunto archivista, torna inevitabilmente di attualità. È stato lui a redigere il testo della nuova legge archivistica, avviata nel 1958 e adottata nel 1963, ed è stato lui ad elaborare il progetto della Guida generale degli archivi di Stato italiani, i cui quattro volumi hanno richiesto venticinque anni (1969-1994), ma hanno posto l’Italia all’avanguardia nella metodologia e nella concettualizzazione dell’organizzazione archivistica. Eppure parliamo di un settore in sofferenza. In particolare se guardiamo agli Archivi di Stato. Secondo i dati forniti al settimanale L’Essenziale da Claudio Meloni, responsabile per i beni culturali della Funzione pubblica Cgil, in queste istituzioni – in cui sono conservati oltre quattordici milioni di pezzi – nel 2022 avrebbero dovuto lavorare 600 archivisti e invece il numero attuale è di 279. Se si pensa che nel 1997 la pianta organica di questo personale qualificato prevedeva un numero di 950 archivisti, si comprende la difficoltà di quest’attività teoricamente fondamentale per avere, come diceva Pavone, una chiave d’accesso alla storia. Per l’Anai (Associazione nazionale archivistica italiana) oggi questo lavoro corrisponde a molteplici ruoli: operatore di cultura, consigliere e collaboratore del ricercatore. “L’archivista ha sviluppato, grazie ai servizi di assistenza presso istituti che conservano archivi storici, un’attitudine all’apertura nei confronti dell’esigenza del pubblico di accedere ai documenti e una crescente capacità di svolgere quindi un prezioso e delicato servizio sociale”. A maggior ragione in un paese come l’Italia dove il patrimonio di documenti è plurisecolare quanto sterminato, è necessario riscoprire il ruolo di queste figure. “La scienza archivistica è appunto una scienza. È un lavoro che non si improvvisa. – sottolinea a Pagine Ebraiche il direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Gadi Luzzatto Voghera – Servono competenze specifiche, anche in ambito ebraico, per coltivare, costruire, aggiornare gli archivi, strumenti fondamentali di conoscenza. Però queste competenze si stanno perdendo. Per fare un esempio concreto: c’è tantissimo materiale, che riguarda anche l’Italia, che risale al Settecento e all’Ottocento scritto in corsivo gotico. Ecco, ora non c’è praticamente più nessuno in grado di leggerlo. È come se fosse una lingua persa, anche in Germania. Così però si rischiano di perdere delle fonti e di conseguenza pezzi della nostra storia”. La Fondazione Cdec da parte sua il suo archivio lo cura, così come altre realtà ebraiche italiane, alcune presenti in queste pagine. “Ma anche nel nostro mondo è necessario fare di più. Anche nelle Comunità ebraiche abbiamo visto molti casi di una cura molto scarsa dei propri archivi”. Non significa, aggiunge, mettere a disposizione tutto in maniera indiscriminata, ma organizzare le proprie carte e dare un accesso informato agli studiosi secondo appunto la scienza archivistica. “Manca purtroppo nel nostro paese una coscienza diffusa del valore degli archivi”. D’altra parte non mancano le iniziative per cercare di valorizzare questi patrimoni. Da Torino a Roma, dagli archivi privati a quelli dello Stato, ci sono molte iniziative, anche legate all’ebraismo e alle sue figure, che si rivolgono al grande pubblico per far scoprire la ricchezza rinchiusa in chilometri di scaffali.