Il nuovo governo Netanyahu

Ha giurato ieri il trentasettesimo governo israeliano. Il sesto guidato dal Premier e leader del Likud Benjamin Netanyahu. Sui quotidiani italiani molti gli articoli e le analisi, con toni per lo più preoccupati. “Israele, torna Netanyahu. Nasce il governo che spaventa gay e arabi”, il titolo del Corriere. “Con Netanyahu omofobi, ultrà e misogini. Israele ha il governo più a destra di sempre”, quello de La Stampa. Il quotidiano torinese così come il Corriere e il Sole 24 Ore presentano Netanyahu come “ostaggio” dei partiti di estrema destra (Sionismo Religioso, Otzma Yehudit e Noam) e haredi (Shas e Yahadut HaTorah). “Le contropartite in cambio del loro sostegno, e di un probabile tentativo di annacquare il processo a suo carico, saranno dolorose. – sostiene tra gli altri il Sole – Dovrà cedere alle pressioni per espandere gli insediamenti in Cisgiordania e crearne nuovi proprio dove i palestinesi puntavano a realizzare il loro Stato, con buona pace delle leggi internazionali. Se lo farà, dovrà far fronte a due probabili effetti collaterali; una potenziale rivolta palestinese. Ed il pericolo reale di compromettere le relazioni con il maggiore alleato, gli Stati Uniti, e con l’Unione Europea”. “Israele è senza dubbio la sola, vera democrazia del Medio Oriente. – rimarca il quotidiano economico – Ma alla quinta elezione in meno di tre anni, le urne hanno partorito una coalizione di maggioranza che sconfina nella destra estrema e rischia di entrare in collisione con i princìpi e i valori di uno Stato multietnico come Israele”.
Il Corriere scrive che anche i conservatori tradizionali in Israele sarebbero preoccupati per il peso in questo governo dei leader dell’estrema destra Itamar Ben Gvir (ministro della Pubblica sicurezza), Bezalel Smotrich (ministro delle Finanze) e Avi Maoz (a capo di un nuovo ufficio “dell’identità ebraica”). In particolare il Corriere parla delle posizioni apertamente omofobe di Smotrich e Maoz; scrive che il primo “vorrebbe imporre la legge dei rabbini a tutto il Paese, se non fosse che gli imprenditori già protestano perché la Start up nation non può riposare di Shabbat”.
Intanto, racconta Repubblica, nel giorno del giuramento davanti alla Knesset migliaia di persone hanno manifestato contro il nuovo esecutivo.
Alle critiche, dagli scranni del parlamento, ha risposto Netanyahu, sottolinea il Giornale, replicando alle opposizioni che la democrazia non è in pericolo. “La sua reazione alle accuse sono le scelte nel campo dei ministri del Likud, tutte state fatte nel campo più liberal democratico del partito per controbilanciare le intenzioni della parte più conservatrice, e per altro eletta e legittima, del suo governo”, scrive il Giornale, che poi rimarca l’elezione di Amir Ohana a nuovo presidente della Knesset. “Un egregio giurista, leader omosessuale, ha segnato la giornata con un discorso storico, rivolgendosi ai i suoi genitori proletari marocchini (seduti nella sala) con cui ha sofferto la fame da bambino per costruire il Paese, e al suo compagno Alon Haddad, che con i loro due bambini in braccio, è stato salutato anche da Netanyahu quando all’inizio ha salutato le famiglie presenti. Ohana ha cambiato faccia anche lui, severo come Bibi, quando ha detto che dal suo ruolo mai e poi mai permetterà che nessuno venga discriminato in Israele secondo il colore, la religione, l’etnia, le preferenze, le scelte… soprattutto i bambini. suoi bambini. Una promessa più credibile della urla che promettono che in Israele si prepara una oscura era di fascismo”.
Rispetto agli obiettivi di più ampio respiro il Premier, riportano Stampa e Sole 24 Ore, ne ha posti quattro: fermare la corsa all’atomica dell’Iran, “ripristinare la sicurezza all’interno dello Stato di Israele”,”affrontare il problema del costo della vita e degli alloggi” e infine “espandere notevolmente il cerchio della pace”. Su questo ultimo punto il tentativo è di far rientrare l’Arabia Saudita negli Accordi di Abramo. Lo afferma a La Stampa Aviv Bushinsky, ex spin doctor del Likud. “Netanyahu si è attribuito il successo degli accordi di Abramo ma tutti sanno che il suo ruolo è stato secondario rispetto a quello di Jared Kushner. – sostiene Bushinsky – Credo che la sua più grande ambizione per assicurarsi un posto nei libri di storia sia firmare un accordo di normalizzazione con l’Arabia Saudita”.

Una vita al comando. Con il ritorno di Netanyahu alla guida d’Israele, Repubblica, in un articolo a firma di Meir Ouziel, si sofferma sulla sua recente autobiografia pubblicata in inglese e poi in ebraico. “Il bilancio di una vita al comando”, la sintesi del quotidiano. Nel libro si parla del rapporto e degli incontri del Premier con diversi capi di stato e di governo internazionali, da Putin a Berlusconi. “Il libro rivela anche nuovi dettagli sul piano di Netanyahu di annessione israeliana di parte della Cisgiordania. Secondo quanto racconta, Bibi ricevette l’imprimatur da Trump rispetto a questa mossa il 28 gennaio 2020. ‘Con Trump ci siamo scambiati delle lettere ufficiali in cui il presidente afferma che gli Stati Uniti sosterranno l’annessione immediata di territori volti a essere parte di Israele in un accordo permanente’. Dopo qualche riga, Netanyahu aggiunge: ‘Poi le cose hanno cominciato ad andare storto’. L’amministrazione Trump si era ricreduta, nonostante gli accordi preliminari”. Ouziel spiega che secondo il leader del Likud a convincere Trump al passo indietro sia stato l’allora ministro della Difesa Benny Gantz. “Ora che Netanyahu è tornato alla guida d’Israele, riuscirà a realizzare il piano di annessione? Probabilmente lo scopriremo nella prossima autobiografia di Bibi”, conclude Ouziel.

La conferenza di fine anno. Le aperture dei giornali di oggi sono dedicate alla conferenza stampa di fine anno della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, durante la quale ha illustrato il suo programma di governo, indicando il presidenzialismo come una delle riforme prioritarie. Nelle tre ore di domande e risposte con i giornalisti, raccontano diversi quotidiani oggi, una era legata ai recenti interventi del presidente del Senato Ignazio La Russa e del sottosegretario Isabella Rauti sul Msi. “Giorgia Meloni, fin lì sorridente, si fa seria, abbassa il tono di voce, risponde innervosita”, la ricostruzione de La Stampa. Il Msi, dice Meloni, ha avuto un ruolo fondamentale “per traghettare verso la democrazia milioni di italiani sconfitti” dalla guerra, “è stato un partito presente nelle dinamiche parlamentari, della destra, democratico. È stato un partito che ha avuto un ruolo molto importante nel combattere la violenza politica, il terrorismo”. E poi: “Il Msi ha avuto un ruolo molto importante nella storia di questa nazione. Perché deve diventare ora impresentabile? Non mi piace questo gioco al rilancio, per il quale si debba fare sempre di più. Msi è sempre stato chiaro sulla lotta all’antisemitismo”. Netto il giudizio di Repubblica: quello di Meloni è “un clamoroso elenco di mistificazioni storiche, rimuovendo del tutto la natura politica del partito che l’ha svezzata”. “Il Msi, – scrive il quotidiano – il partito di cui fu segretario Giorgio Almirante, ex segretario di redazione della Difesa della razza, e caposquadra dei picchiatori fascisti all’università La Sapienza di Roma nel 1968. Il Msi, il partito di cui fu segretario Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, forza chiave della strategia della tensione e manovalanza delle stragi. Il Msi, il partito del massacratore di partigiani e golpista Junio Valerio Borghese”.

Conti con il passato. “Molti anni fa incontrai Ignazio La Russa e Giorgia Meloni a Piazza San Silvestro e dai discorsi fatti in quella occasione ebbi l’impressione che il processo di analisi di quanto fatto dal fascismo e da Mussolini sarebbe arrivato infine a sciogliere tutti i nodi legati all’eredità del fascismo. Mi ero evidentemente sbagliato e illuso”. È quanto scrive rav Scialom Bahbout in un intervento pubblicato oggi su Repubblica in merito alla recente polemica sul ricordo del Msi. “Il senatore La Russa e gli altri membri del partito Fratelli d’Italia – si legge nell’intervento – hanno fatto delle leggi razziste emanate dal governo fascista nel 1938 il nucleo centrale della condanna di quanto fatto da quel governo. Purtroppo, con tutto il rispetto per gli ebrei, si tratta solo della classica foglia di fico che va a giustificare atti e fatti efferati del fascismo e del suo duce Mussolini”. In conclusione rav Bahbout aggiunge che “Rispettare la memoria dei propri genitori non ha niente a che fare con il rispettare le idee e gli atti criminosi che hanno fatto o soltanto approvato. Sarebbe più dignitoso rispettare la memoria in altro modo e certamente senza dare pubblicità a un fatto assolutamente privato e che tale avrebbe dovuto rimanere per una persona che svolge una funzione pubblica di rilievo come presidente del Senato”.

Topografia e memoria. “Così Pisa difende la memoria del persecutore degli ebrei” titola Domani in un articolo dedicato al caso che da anni coinvolge la città toscana: la presenza di una via dedicata al rettore fascista Giovanni D’Achiardi, che nel 1938 aveva compilato la lista dei docenti ebrei da cacciare dall’Università. In comune è stata presentata una proposta per reintitolare la via a Raffaele Menasci, docente cacciato da D’Achiardi e assassinato ad Auschwitz. La mozione, scrive Domani, “è stata bollata come ‘proposta radical chic, tendente a delegittimare gli avversari politici’ e respinta dalla maggioranza di centro-destra il 16 novembre 2021”. Ma l’iniziativa, anche attraverso una raccolta firme, è stata ripresentata al sindaco leghista Michele Conti tra gli altri da Michele Emdin, nipote di uno dei docenti cacciati. E nuovamente discussa in consiglio comunale. Domani riporta alcuni estratti del dibattito e in particolare la posizione della maggioranza. La consigliera della Lega Maria Punzo ad esempio: “Sono molto vicina alla comunità ebraica, ho più volte incontrato il vostro ex ambasciatore, a Livorno l’ultima volta [si rivolge a Emdin – segnala Domani – come se l’ambasciatore d’Israele fosse “suo”, come se un pisano da molte generazioni, in quanto ebreo, fosse più israeliano che italiano]. La zona dell’ambiguo non la si può tagliare in due con una linea retta, come diceva Primo Levi, questo vale anche perla vita di D’Achiardi. Oggi qui non siamo un tribunale. Si prende della vita di un uomo un atto solo, senza contestualizzarlo e facendosi travolgere dalla cancel culture del momento. Non vorrei che a forza di cancellare la nostra memoria perdessimo noi stessi”.

Daniel Reichel