Il film israeliano agli Oscar
Cinema Sabaya, la pace delle donne

“È sempre preoccupato per i soldi e la situazione economica. Questo è quello che gli interessa, ha dimenticato il romanticismo”. “Ricordaglielo”, ribatte l’altra con una risata. “E perché devo ricordarglielo? Può farlo da solo”, replica la prima. “Dopo tanti anni, non si è più come quando si è appena sposati. Ma c’è una comprensione reciproca ed è importante”, interviene con autorevolezza una donna più anziana. Sono dialoghi così comuni che verrebbe da non farci caso, se non che a rendere unico questo scambio di battute è il contesto in cui si svolge. A parlare sono nove donne, ebree e palestinesi, riunite per partecipare a un seminario video organizzato da Rona, una giovane regista che insegna loro come documentare le loro vite.
E mentre i filmati girati dalle donne sono condivisi con le altre, le dinamiche di gruppo si modificano. Le protagoniste iniziano a conoscersi meglio e trovano il coraggio di mettere in discussione se stesse e le proprie convinzioni. È la storia al centro del film Cinema Sabaya, diretto da Orit Fouks Rotem, che dopo essere stato premiato come migliore opera prima e dal pubblico al Jerusalem Film Festival, è ora candidato da Israele agli Oscar.
Basato su un’esperienza reale della regista, che in passato ha tenuto un gruppo di questo tipo per impiegate comunali ebree e arabe in diverse località del paese, il lavoro ha un forte sapore documentario. Di fatto, l’unica attrice professionista è Dana Ivgy, nel ruolo della giovane filmaker. Le altre interpretano invece se stesse. E fra riflessioni e risate si vedono i pregiudizi scivolare via mentre prende forma la consapevolezza di un’identità condivisa. “Il film – spiega Orit Fouks Rotem – offre un raro sguardo sulle profondità nascoste delle vite delle donne ebree e palestinesi, in cui il punto centrale di convergenza e la cosa più profonda che hanno in comune, è semplicemente il fatto di essere una donna. Questo si è rivelato più forte della loro religione o del mondo culturale”.
“La speranza – continua – è che il film offra una conversazione intima e stimolante, senza ignorare i diversi background a dimostrazione che questi non sono un ostacolo nel creare profondi legami e vere amicizie”. In queste conversazioni il tema del conflitto è inevitabile, ma questo non è un film politico nel senso usuale del termine. Se riunire nella stessa stanza arabi e ebrei e dare libero corso al flusso delle opinioni ha in sé un contenuto politico, il vero atto politico, sostiene Fouks Rotem, è nella possibilità di conoscere davvero le donne.
“Non ricordo molti film in cui le donne arabe hanno avuto ruoli diversi dalla nurse o la moglie di qualcuno. Volevo garantire loro rispetto e un ruolo di primo piano. Questo per me è stato più importante del conflitto e dei discorsi sul conflitto”. Il fatto che il film sia stato girato in appena 12 giorni e senza prove imprime al racconto un’atmosfera di autenticità – tutto quel che accade sotto gli occhi dello spettatore di fatto avviene per la prima volta: le protagoniste di Cinema Sabaya vogliono far sentire le proprie storie, ma talvolta sono spaventate o incapaci di raccontarle in prima persona. Quello di Orit Fouks Rotem è uno dei primi film israeliani, se non forse l’unico, di sole donne. Il risultato è una prospettiva che le racconta con il loro sguardo, senza imporre loro uno sguardo maschile. È un approccio che la regista riporta allo straordinario film Brainwashed di Nina Menkes, presentato di recente al festival di Berlino, che esplora i modi in cui il linguaggio del cinema, dalle immagini alle riprese, sfrutta l’immagine della donna. Lo stesso modo di inquadrare uomini e donne, mostra Menkes intrecciando una serie di segmenti, è diverso, “con le donne spesso mostrate come oggetti per il sostegno, il piacere e l’uso dei soggetti maschili”.
Cinema Sabaya scavalca queste logiche per restituire le donne al loro ruolo di protagoniste e la natura del loro dialogo al suo significato più autentico.

Daniela Gross

(4 gennaio 2023)