La prosecuzione

Abbiamo intrapreso, nelle scorse puntate, il discorso di un possibile parallelo tra il viaggio di Dante e i precedenti quattro viaggi più famosi della cultura occidentale, quelli di Ulisse, Enea, Mosè e Abramo.
Non c’è dubbio che il poeta abbia avuto presenti, come esempio e sollecitazione per la sua invenzione, i primi tre di questi, sia pur in modo molto diverso l’uno dagli altri.
Il viaggio di Ulisse è un esempio virtuoso della ricerca di “virtute e canoscenza” (Inf. VI. 120), sia pur vanificato dall’assenza di una prospettiva trascendente e, soprattutto, dal fatto che il viaggiatore si rese responsabile di una grave colpa, quella del tradimento. Il suo coraggio e la sua sete di sapere non valgono a redimerlo, giacché egli mai si pentì del suo peccato. E le conseguenze di quel tradimento furono particolarmente pesanti, giacché da esso derivò la caduta della città genitrice dell’Urbe, la città eterna fulcro dell’unica legittima monarchia universale, voluta da Dio. La distruzione di Troia era scritta nel divino disegno soteriologico, ma chi l’aveva causata, con l’inganno, andava comunque punito, quantunque ammirato per altre ragioni (secondo un meccanismo di necessità analogo a quelli, già esaminati, che determinarono il sacrificio del figlio di Dio e poi “la vendetta de la vendetta del peccato antico”, ossia la caduta di Gerusalemme [Par. VI. 95]).
Quanto a Enea, il rapporto tra il suo viaggio e quello di Dante è qualcosa di più di una semplice analogia. Il fiorentino è un diretto prosecutore, continuatore del poema virgiliano, il cui racconto porta a compimento grazie all’illuminazione di quella “fede, ch’è principio alla via di salvazione” (Inf. II. 29-30); la fede che mancò invece al suo maestro, e che è pertanto confinato nel Limbo, luogo di desiderio senza speranza, parte dell’Inferno. Dante prosegue l’impresa di Enea, con armi diverse, per fondare una patria diversa, il regno della giustizia, il quale non potrebbe tuttavia essere concepito senza quel regno terrestre fondato, sulle rive del Tevere, dal figlio di Venere.
E anche il rapporto con Mosè è assolutamente evidente.
Come il profeta aprì al suo popolo le porte della Terra Promessa, così Dante vuole condurre l’umanità alla nuova terra della giustizia. Mosè liberò il popolo ebraico dalla schiavitù, consegnò ad esso le Tavole della Legge di Dio e gli diede le chiavi di quella Terra d’Israele, nella quale – secondo la visione cristiana – si sarebbe instaurata la santa monarchia da cui sarebbe poi disceso il figlio di Dio. Senza quella patria non avrebbe potuto insediarsi il re David, dalla cui progenie sarebbe poi dovuto nascere il Messia.
Dopo la venuta del figlio di Dio, l’aquila di Roma, al servizio del Signore, permise la diffusione della sua parola – raccolta, ripetuta e interpretata dalla Chiesa di Pietro – all’interno dei confini del grande impero universale. La monarchia di Roma e la Chiesa di Roma avrebbero dovuto essere affiancate, alleate in questa santa missione. Eppure, quella alleanza tra Cesare e Pietro si sarebbe rivelata scellerata (Inf. XIX. 115-117), in quanto i successori di entrambi avrebbero tradito la missione loro assegnata, facendosi traviare dalla cupidigia e dalla sete di potere. Tanto l’impero quanto la Chiesa avrebbero smarrito la strada di quella giustizia che mosse l’“alto fattore” (Inf. III. 4) a creare il regno ultramondano visitato da Dante.
Ed è proprio per richiamare a tale dovere – quello di servire la giustizia – che Dante effettua il suo viaggio. Se la giustizia non fosse stata smarrita, il viaggio di Dante non sarebbe stato necessario, così come non sarebbe stata necessaria la venuta del figlio di Dio senza il “peccato antico” di Adamo.
Dante, quindi, prosegue il viaggio di Enea come quello di Mosè, in quanto cerca di salvare dai loro errori coloro che avrebbero tradito l’opera di chi aveva posto le prima fondamenta dell’impero terrestre e di quello celeste. Il percorso di Dante è una prosecuzione, un compimento. La famosa negazione “io non Enea, io non Paulo sono” (Inf. II 32) è, in realtà, un’asserzione. Nessuna presunzione, semplice presa d’atto.
Il riferimento al viaggio di Abramo, invece, sembra, nella Commedia, meno evidente.
Eppure, il senso di tale viaggio, – per la comprensione del percorso di Dante – appare essenziale, anche se su un livello diverso.
Ne parleremo la prossima puntata.

Francesco Lucrezi