Tel Aviv-Durban: quando
la Sochnut ti manda in Africa

Il 31 agosto ho finito il servizio civile in Israele; quattro giorni dopo sono salita su un aereo con destinazione Sudafrica. Stavo andando incontro a un’esperienza fantastica della durata di tre mesi. Ho partecipato a un progetto dell’Agenzia Ebraica che si chiama Project TEN e che si occupa di sviluppare i “21st century skills” dell’Onu, ossia le abilità essenziali affinché un giovane possa avere successo nella vita. Questo progetto è attivo anche in altre parti del mondo come Ghana, Cambogia, Uganda, Messico, Etiopia, Sud Africa, e ora se ne sta aprendo uno anche in Argentina. A differenza dei progetti standard dell’Agenzia Ebraica, volti a portare ebrei della Diaspora in Israele o ad aiutare le comunità ebraiche locali, questo progetto è diverso: basandosi sul concetto ebraico del Tikkun Olam e con l’intenzione di lasciare una impressione positiva di Israele, la Sochnut con il suo “Project 10” contribuisce a supportare le società più svantaggiate in quei paesi che più hanno bisogno di aiuto. Ad eccezione dell’Etiopia, dove invece il volontariato è volto a chi è prossimo a fare la Aliyah.
Il progetto coinvolge ragazzi tra i 20 e i 30 anni da tutto il mondo e si prefigge di sviluppare l’educazione informale facendo attività con i bambini delle scuole. Ogni giorno facevamo lezioni diverse in due scuole di Inanda, coinvolgendo bambini con attività di arte, giochi di logica e di gruppo.
Nonostante le difficoltà iniziali, con il passare del tempo prendevamo sempre più confidenza con i bambini e con i ragazzi con cui lavoravamo, affezionandoci sempre di più a loro: ogni lezione era un’emozione nuova, come quando per esempio, durante i nostri giochi di logica, i bambini cominciavano a sviluppare una propria strategia e alcune volte ci facevano notare una tattica a cui non avevamo pensato.
Quando arrivavamo a scuola eravamo accolti da grandi sorrisi delle maestre e appena i bambini ci vedevano scendere dalla macchina ci venivano incontro in modo festoso: i più piccoli si divertivano a farsi rincorrere o a dare il cinque, quelli più grandi parlavano e giocavano a calcio con noi mentre altri si divertivano semplicemente a venire alla macchina e salutare.
Le lezioni funzionavano così: ognuno di noi stava con un certo numero di bambini di una classe. Ci presentavamo, gli chiedevamo come stavano e com’era andata la loro giornata. Poi facevamo un giro di nomi, chiedevamo quale era il loro film o il loro colore o il loro cibo preferito ecc., e poi spiegavamo loro le regole da rispettare come: parlare in inglese, rispettare l’altro, rispettare i materiali a disposizione, aiutare a rimettere a posto, non menare e non litigare. Chiedevamo anche se avevano qualche altra regola da suggerirci e, verso la fine del periodo, alcuni di loro hanno effettivamente aggiunto alcune nuove norme, come lavorare in gruppo, ascoltarsi a vicenda, essere gentili l’un con l’altro. Dopodichè cominciavamo a spiegare l’attività. Verso gli ultimi 10 minuti delle lezioni, cercavamo di far finire ai bambini quello che stavano facendo o di fargli raggiungere l’obiettivo previsto; poi chiedevamo ai ragazzi com’era stata la lezione, se si erano divertiti, se era stato difficile o facile e se avevano imparato qualcosa.
Alla fine di ogni lezione, noi ragazzi insieme ai coordinatori, ci scambiavamo idee e opinioni su come fosse andata la lezione e sulla dinamica del gruppo classe.
Era bello vedere come all’inizio i bambini che partivano più scoraggiati diventavano tutti bravissimi una volta capito il gioco: vincevano spesso e aiutavano gli altri. Un’esperienza che mi è rimasta nel cuore è stata quando alla fine di una lezione una bambina ha chiesto ad un volontario come si preparava un gioco che avevamo fatto insieme, e due settimane dopo ci ha mostrato che ne aveva preparato uno insieme ad alcune sue amiche. È stato molto emozionante.
Ognuno di noi ragazzi, oltre a uno “spazio” didattico di cui era responsabile, aveva anche un compito più “domestico”. Chi si occupava di fare la lista delle cose che servivano sia a casa sia a scuola, chi doveva organizzare attività per lo Shabbat e compleanni vari e infine chi era addetto all’organizzazione di un seminario per i maestri nelle scuole allo scopo di mostrare loro il metodo didattico del progetto, ossia l’educazione informale. Oltre alle due scuole con cui lavoravamo, facevamo volontariato in un centro comunitario dove andavamo una volta a settimana a intrattenere i bambini della zona con giochi di gruppo.
In questo centro i ragazzi vengono incoraggiati a fare sport, ad andare in mountain bike o a fare canottaggio così come a leggere i libri a disposizione lì.
A settimane alterne avevamo un week end libero e uno no. Durante i fine settimana aperti abbiamo visitato il paese e visto posti bellissimi, panorami mozzafiato, animali tipici e incontrato persone fantastiche. Durante questi tre mesi ho conosciuto un paese molto interessante e vario; un paese che ancora combatte con la sua recente storia e con le conseguenze dell’apartheid.
Come descrivere Inanda? Innanzi tutto è a circa un’ora da Durban, la città in cui abitavamo. Si tratta di un villaggio enorme immerso nella natura e nel verde, con più di 150 mila abitanti. Qui si possono vedere macchine che camminano a fianco di mucche, galline, capre, cavalli o cani randagi. Ci sono case fatte di mattone, ben costruite e abbastanza grandi, a fianco ad altre che invece sono baracche. Inanda è senza dubbio un villaggio povero e diverso da qualsiasi villaggio abbia mai visto in Israele, eppure, conoscendolo meglio, si scopre che ha una cultura ricca e una vita non meno piena della nostra. Nonostante le differenze culturali ed economiche di due paesi ben diversi, Israele e il Sud Africa, tutto il mondo è paese, e le dinamiche che si creavano nelle scuole in cui lavoravamo ad Inanda sono le stesse che si creano qui in Israele: i bambini che escono di corsa dalla classe come comincia la ricreazione, i maschi che giocano a pallone mentre le femmine stanno tra di loro a chiacchierare, cantare e ballare, i ragazzi che preparano gli esami di fine anno tra litigi, amicizie, stress per il liceo e così via. Sono bambini e ragazzi pieni di gioia, dolcissimi, sorridenti, entusiasti e con occhi curiosi, esattamente come noi.
Inanda si trova nella provincia del KwaZulu-Natal, abitata da una maggioranza Zulu: la cultura Zulu è una cultura affascinante, bella, accogliente e sorridente. Ogni venerdì che passavamo a casa studiavamo isiZulu con il nostro coordinatore locale per imparare le basi linguistiche così da poter comunicare con i bambini più piccoli della prima e seconda elementare che ancora non sapevano l’inglese.
Gli Zulu sono un gruppo etnico africano di circa 11 milioni di persone in Sudafrica. Parlano lo isiZulu, e il loro nome deriva da “Amazulu”, che in isiZulu significa “gente del cielo”. Durante il regime dell’apartheid, gli Zulu venivano considerati cittadini di livello inferiore; oggi sono il gruppo etnico più numeroso del paese e godono degli stessi diritti degli altri cittadini sudafricani.
E noi volontari, tra lezioni di Zulu, compleanni da festeggiare e attività da preparare, siamo riusciti a legare subito senza mai litigare, nonostante tutti gli svantaggi e i timori di un piccolo gruppo che non si conosce per niente. Ci siamo interessati l’uno all’altro, consigliati, consolati quando eravamo tristi, e festeggiato insieme in diverse occasioni. C’è stato un bellissimo rispetto reciproco. Nonostante solo io e un’altra ragazza rispettassimo lo Shabbat e la Casherut, il gruppo non si è mai tirato indietro dal passare insieme a noi anche i fine settimana che avevamo a disposizione per girare il paese liberamente.
Non saprei riassumere in poche parole quest’esperienza: posso dire che ne sono tornata arricchita, piena di gioia e che tutti i bambini mi sono rimasti nel cuore. Ho imparato molto: dal saper essere più responsabile, allo svolgere e concludere i compiti in tempo, a convivere con altre persone che prima non conoscevo ma che poi sono diventate la mia famiglia, i migliori amici e i miei compagni di avventura.
È stata un’esperienza che sicuramente mi rimarrà impressa nel cuore e che mi accompagnerà sempre nel percorso della mia vita, insieme ai bambini dolcissimi e all’affascinante ma complicato Sudafrica.
Ruth Ascoli, Haifa
(4 gennaio 2023)