Memoria degli archivi
e archivi della memoria

È una difficile condizione quella abitualmente vissuta da chi, studioso, ricercatore o più semplicemente legittimo curioso, intenda rivolgersi agli archivi patri, quelli conservati nei luoghi pubblici deputati a tale funzione. Se poi ci si voglia arrischiare nei depositi di documenti sensibili, tali poiché formalmente accessibili ma destinati comunque a scontare un supplemento di riservatezza, spesso a discrezione di chi si trova dall’altra parte del bancone, allora il terreno si fa particolarmente scivoloso. L’Italia è, per ciò che riguarda la conservatoria documentale pubblica, negletta, quasi abbandonata, quanto meno trascurata se non addirittura derelitta. È spesso la condizione di quanti vorrebbero «fare ricerca». Se c’è un tema che richiama la memoria, intesa come facoltà civile del ricordare attraverso la ricostruzione collettiva del passato, la dimensione dell’archivio pubblico ne è un riscontro. Tuttavia, in un drammatico negativo. Perché diventa il punto di ricaduta di tutta una serie di incongruenze che accompagnano la storia repubblicana, dove all’affermazione (il dichiarare qualcosa, possibilmente di assai prossimo alla verità) si è molto più spesso manifestata l’omissione (il celare, molto spesso per il gusto stesso di impedire la condivisione di una conoscenza, in tale modo di fatto annientandola: è tale, infatti, l’informazione che circola; altrimenti i dati di cui si compone sono destinati all’inessenzialità). La condizione materiale degli archivisti, ovvero di coloro che lavorano negli (e per gli) archivi, non è poi meno difficile. La loro scarsità è, a sua volta, indice del modo in cui il nostro Paese considera il suo patrimonio storico. E quanti lavorano per esso. È significativo il fatto che una nazione che enfatizza il rapporto con la sua corposa eredità, sotto l’ampio capitolo dei «beni culturali» («le cose immobili e mobili che […] presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà», secondo la nozione legislativa in materia), si comporti poi come se questi fossero i figli minori di un matrimonio fallito. Detto questo, dinnanzi alle buste e ai faldoni, quando ci si avventura – spesso con le mani ricoperte dai guanti in lattice – nella ricerca di un qualcosa di significativo, si possono fare scoperte insperate.
All’inesperto osservatore esterno, i documenti parrebbero parlare da sé, con una sorta di voce propria. Ma chi maneggia con abitudine carte e testimonianze del passato, sa che sarà lui stesso a dovere dare voce, ossia coerenza, a ciò che gli si presenta dinnanzi. Una simile dinamica, per più aspetti, è implicata dal lavorare con la testimonianza orale. Nessuna fonte del passato, infatti, può vivere se non la si riesce a contestualizzare. La qual cosa implica un duplice sforzo: collocarla nel tempo e nei luoghi di cui è il prodotto; ricondurla ai linguaggi del presente, rendendola intellegibile e quindi fruibile rispetto ad un pubblico ben più ampio dei soli specialisti. Si tratta della diacronia che accompagna la vita dello storico: cosa avvenne e come lo si deve interpretare nell’oggi. Il lavoro d’archivio, allora, non è necessariamente la scoperta del documento in quanto tale (posto che molto spesso non si sa bene quale genere di risultato si potrà effettivamente ottenere da una data ricerca) ma lo sforzo di tessitura di significati tra il presente, ovvero il bisogno di dare ad esso un senso compiuto condivisibile, e il deposito del passato che ogni archivio conserva in sé. Non c’è nulla di elegiaco in ciò. Poiché l’archivio materiale funziona molto spesso come la men- te umana: consapevolmente, non può trattenere tutto quello che lo attraversa se non sedimentandolo nelle conservatorie che poi rimangono, magari per molto tempo, consegnate ad una sorta di vigile oblio. D’altro canto, l’accesso ai materiali conservati negli archivi (dello Stato, delle pubbliche amministrazioni, degli stessi privati) risponde, o dovrebbe comunque corrispondere, a quattro principi fondamentali: 1) la libertà di ricerca e di informazione; 2) la riservatezza della vita privata; 3) la trasparenza della pubblica amministrazione; 4) la tutela del segreto di Stato, laddove ne sussistano comprovate ragioni.
Un grandissimo archivista (e storico) qual era Claudio Pavone ricordava spesso che «solo una società compiutamente organicista ed olista, e pertanto né democratica né liberale, può proporsi la totale sussunzione del singolo e della sua memoria nel tutto, così da fare scomparire l’esigenza stessa della salvaguardia di una sfera privata e inaccessibile della vita e della memoria dei singoli individui». L’accessibilità agli archivi, d’altro canto, non è vincolata solo dai limiti soggettivi di risorse e personale, così come di tempi e spazi, ma anche da una normativa molto complessa, spesso non conosciuta, e ancora meno compresa, da chi non opera direttamente nel settore. Soltanto negli anni Settanta e Ottanta il trasferimento degli Archivi di Stato – che erano rimasti alle dipendenze del ministero dell’Interno fin dall’Unità d’Italia – avvenne con non poche difficoltà materiali, organizzative ma soprattutto burocratico-amministrative, al nuovo ministero dei Beni culturali e ambientali, creato da Giovanni Spadolini nel 1975. Precedentemente la competenza era stata esercitata in modo esclusivo dall’Ispettorato archivistico, affidato ad un prefetto. Quando gli Archivi erano inquadrati nel ministero dell’Interno, la concessione dei permessi di consultazione era subordinata al parere della Giunta del Consiglio superiore degli Archivi, dove sedevano rappresentanti della ricerca storica, degli archivi stessi e delle istanze politico-amministrative. La creazione del ministero dei Beni culturali comportò la scomparsa del Consiglio superiore degli archivi, assorbito dal Consiglio nazionale dei beni culturali, allora costituito, e di conseguenza della Giunta da quello espressa. L’Ispettorato ministeriale rimase unico e definitivo arbitro.
Ad esempio, era questo l’organismo che voleva negare la consultazione degli atti del censimento degli ebrei, disposto dopo l’emanazione delle leggi razziste del 1938, con la discutibilissima motivazione che il divieto serviva a garantire la privacy dei perseguitati. Le direttive europee che sono poi intervenute si muovono fra l’obiettivo della tutela della privacy e quello della libertà di accesso agli archivi, che in uno Stato democratico deve essere riconosciuta a tutti i cittadini indistintamente. Il punto di incontro fra le due istanze è lasciato ai singoli Stati, entro i parametri di principio fissati dall’Unione europea stessa.
D’altro canto, tanto più oggi, nell’età del web, non è facile distinguere in modo netto il contenuto pubblico da quello privato di una notizia, soprattutto se si pensa all’enorme mole di informazioni sulla vita dei cittadini che vengono raccolte sia dalle autorità pubbliche che da soggetti mercantili. Benché la legge miri a mantenere divisi, con una linea netta, il privato dal pubblico, data la complessità della società moderna, è sempre meno possibile muoversi in questa logica. Le due distinzioni, ricorda ancora Claudio Pavone, «non possono comunque soddisfare lo storico, il quale rompe i confini rigidi, trapassa da un territorio all’altro, è attratto dalle ambiguità e, nella ricostruzione dei contesti, [quindi] non può porre aprioristicamente a se stesso invalicabili colonne d’Ercole. È questo il motivo per cui fra le norme di legge, anche le più accurate, e la prassi archivistica rimarrà sempre uno spazio in cui agisce la mediazione culturale e amministrativa degli interpreti, nel nostro caso gli archivisti con la consapevolezza metodologica degli storici. Si pensi ai rapporti sempre più stretti fra storia politica, storia sociale, storia culturale, storia della mentalità e, per usare una parola di cui oggi molto si abusa, della “soggettività”: terreni tutti di simbiosi fra pubblico e privato». Ricordare, d’altro canto, è un esercizio non solo impegnativo e complesso, ma pieno di contraddizioni. La memoria, da questo punto di vista, è un continuo transito dalla dimensione personale a quella collettiva e viceversa. Gli archivi, come raccolta di fonti documentarie, lo testimoniano. Anche, paradossalmente, quando rimangono inaccessibili o scarsamente fruibili. Come uno specchio in cui si riflettono le mille sfaccettature delle persone così come delle collettività, tra visibile e invisibile ma non per questo non intuito.
(Nell’immagine: alcuni faldoni delle pratiche di esproprio dei beni immobili degli ebrei del Fondo Egeli)