Il profeta delle Ande
![](https://moked.it/files/2023/01/Profeta-Ande-790x626.png)
La storia si affaccia per caso su internet. È una lettera intitolata “Convertire gli Indiani Inca in Perù” che porta la firma del rabbino Myron Zuber di Monsey, una comunità hasidica nello Stato di New York. È il 2003 e nel suo appartamento di Buenos Aires, la giornalista Graciela Mochkofsky s’incuriosisce. Si tratta di un lungo appello per raccogliere fondi a sostegno di un certo Segundo Villanueva che nel nord Perù si è convertito all’ebraismo, ha riunito attorno a sé un centinaio di persone e con loro è emigrato in Israele. Il testo trabocca di esagerazioni e imprecisioni (tanto per cominciare, gli Indiani Inca non esistono) ma l’istinto dice a Mochkovfsky che vale la pena approfondire. Telefona al numero a fondo pagina e si trova a parlare con la vedova del rabbino. È una delle donne convertite da Villanueva e le dà suo recapito. Qualche settimana dopo, la giornalista è in Israele dove incontra la famiglia di Segundo. Quella che segue è un’inchiesta che per 15 anni la vede attraversare il mondo, studiare l’ebraico e l’ebraismo, inseguendo la saga di Villanueva. Il reportage ora è un libro, di cui negli Stati Uniti si è molto parlato, dal titolo The prophet of the Andes: an unlikely journey to the Promised Land (Il profeta delle Ande: un improbabile viaggio verso la Terra Promessa). In un racconto appassionante e carico di umanità, quasi 300 pagine ricche di fonti e interviste, torna a noi la traiettoria straordinaria di un paesano, un mestizo (come in America latina chiamano chi all’ascendenza europea unisce quella indigena), un cattolico che in un remoto villaggio sulle Ande a metà Novecento approda all’ebraismo, mette insieme un gruppo che prende il nome Bnei Moshe e con loro si converte e fa l’alyah.
È un percorso che intreccia molti temi complessi: il significato di essere ebrei, il rapporto con la Bibbia, le relazioni con il mondo ebraico, le dinamiche della società israeliana. E a colpire il lettore italiano è l’incredibile risonanza fra questa storia e un’altra ben più nota conversione spontanea di gruppo – quella che negli anni Trenta vede protagonisti Donato Manduzio e gli ebrei di Sannicandro Garganico. Ognuna è un percorso a sé, con le sue caratteristiche e problematiche. Ma a leggerle in parallelo, le due vicende illuminano di una luce viva l’arcipelago in costante mutamento dell’ebraismo nel mondo, come da New York, dove oggi dirige la facoltà di Giornalismo della CUNY, racconta con un entusiasmo contagioso Graciela Mochkovsky in quest’intervista con Pagine Ebraiche.
C’è una bella simmetria fra il suo reportage e la traiettoria di Segundo Villanueva. Per lui tutto inizia con una Bibbia trovata nel baule di suo padre, per lei è invece un post su internet. E in entrambi i casi, una scoperta fortuita innesca una lunga e complessa ricerca. Quali sono state le sue motivazioni?
Non vorrei mai paragonarmi a Segundo, che ha fatto qualcosa di così unico e straordinario e non appartengo a questa storia. Ci sono però delle ragioni personali di cui parlo nella prefazione. Ho incontrato la sua vicenda dopo aver scritto il mio primo libro sull’editore ebreo argentino Jacobo Timerman, mentre stavo approfondendo l’esperienza ebraica in America Latina. Mio padre è ebreo e la sua famiglia è emigrata in Argentina dall’Est Europa agli inizi del XX secolo. Mia madre, di origini uruguyane, è cattolica e così sono stata educata. L’ebraismo è stato però sempre una parte importante della mia identità. Sono cresciuta con la famiglia di mio padre, con i nonni e i cugini, e quando mia nonna parlava di “nosostros”, noi ebrei, mi sono sempre sentita un po’ esclusa.
Inoltre l’Argentina è stata a lungo la terza comunità ebraica più numerosa del mondo dopo Israele e gli Stati Uniti. Lì il mio cognome suona molto ebraico e la gente ha sempre dato per scontato che lo fossi. Questo libro è stato anche un modo per capire meglio la mia stessa identità. A parte questo, il percorso di Segundo è appassionante, misterioso, ricco di colpi di scena. E quando scrivo un libro la mia regola è scegliere una storia così, con cui sono felice di trascorrere degli anni.
La figura di Segundo ha qualcosa di eroico e donchisciottesco. È respinto, incompreso, vive in povertà ma rifiuta di arrendersi. Cosa gli dà questa forza?
Quando per la prima volta apre la Bibbia e inizia a leggere è sopraffatto dalle emozioni. È un uomo religioso, un cattolico, ma non ha mai incontrato prima quei contenuti in quella forma. Allora in Perù la messa è ancora in latino, la mediazione del prete è centrale e nelle case dei poveri la Bibbia è una rarità – non è proibita ma rappresenta un atto di arroganza. In quella lettura sente una verità profonda: vuole comprendere, vivere secondo quelle regole e a un certo punto sente il bisogno di un gruppo con cui condividere il suo percorso. Non sta cercando una chiesa o qualcuno che gli dica cosa fare, ma il modo giusto di vivere. La sua è una ricerca di verità. È un libero pensatore e tale resterà fino all’ultimo – il che finirà per creargli anche parecchi problemi.
Il rapporto di Segundo con il mondo ebraico non è dei più facili. Come se lo spiega?
Nel suo villaggio l’unica religione è quella cattolica: non sa dell’esistenza di una comunità ebraica né ha mai sentito parlare di Israele. Sono i precetti della Torah a convincerlo – il rispetto del Sabato, l’idea del popolo di Israele e l’idea di un legame fra il popolo e la Parola. Quando a Lima incontra altri ebrei viene però respinto. Non è solo una comprensibile diffidenza verso gli estranei o il fatto che l’ebraismo rifugge dal proselitismo: c’è un forte divario in termini di etnia e classe. La comunità è in maggioranza middle class e di origini europee, Segundo è invece un mestizo, un proletario, un paesano – un outsider.
Il rifiuto non è però unanime.
Assolutamente no. Trova anche chi lo aiuta e lo sostiene. Dal suo viaggio a Lima torna con alcuni libri che gli consentono di portare avanti il suo studio. Negli anni successivi, toccati dalla profonda religiosità dei Bnei Moshe, dal loro spirito di sacrificio e dalla povertà, tanti prendono a cuore la situazione e alcuni rabbini si recano sul posto. Alla fine un tribunale rabbinico ortodosso converte gran parte del gruppo e le pratiche per l’emigrazione in Israele seguono nel giro di mesi.
E una volta lì si trovano al centro di ulteriori polemiche.
Al loro arrivo, certa stampa israeliana ne parla come degli “ebrei della giungla” rimarcando il loro colore di pelle mentre qualcuno li definisce “carne da cannone” denunciando un’agenda politica dietro la loro aliyah. E di fatto del tribunale rabbinico che presiede alla loro conversione fa parte rav Elia Avichail, legato al movimento Gush Emunim e agli ideali della Grande Israele.
Quanto ai Bnei Moshe, sono religiosi e vogliono un ambiente osservante, desiderano stare insieme e hanno bisogno di un lavoro. Su suggerimento di rav Avihail, anziché dirigersi verso qualche sobborgo di Tel Aviv, si stabiliscono a Elon Moreh, un insediamento in Cisgiordania che risponde a questi requisiti ed è pronto ad accettarli. Lì trovano un’accoglienza piena di calore e si integrano con successo, con la sola eccezione di Segundo e suo fratelli. Ancora oggi tanti discendenti vivono lì e i nipoti ormai non parlano più lo spagnolo.
Il libro si riferisce a un’altra conversione spontanea di gruppo, quella degli ebrei di Sannicandro Garganico. Quali sono i punti di contatto?
È l’unica storia davvero simile a quella di Segundo. Il primo a parlarmene è stato, nel 2003 a Gerusalemme, il rabbino Avihail che oltre a supportare i Bnei Moshe in passato si era occupato delle cosiddette tribù perdute fra cui i Bnei Menashe in India. Ragionando di Segundo e dei suoi, ha subito evocato due storie a suo giudizio paragonabili e uniche nella storia dell’ebraismo: gli Abayudaya in Uganda e, appunto, gli ebrei di Sannicandro. Sono tutte vicende che iniziano con un uomo che legge la Torah, intraprende una ricerca, approda all’ebraismo, crea attorno a sè un gruppo e fino all’ultimo non trova aiuto. E sia per gli ebrei di Sannicandro sia per i Bnei Moshe si tratta di una conversione che avviene senza mediazioni, dalla lettura dei testi, matura lontano dai centri urbani e dalle comunità ebraiche e si conclude con l’emigrazione in Israele.
In un recente articolo, lei ha mappato un notevole aumento interesse per l’ebraismo in America Latina. Di che cosa si tratta?
Dal Messico al Cile, ci sono oggi quasi 60 gruppi che per certi aspetti rimandano all’esperienza di Segundo e sono o si considerano ebrei. È difficile dare cifre precise ma si stima una presenza di 10-15 mila persone e mentre lavoravo al libro molti di loro si sono messi in contatto.
Si tratta in maggioranza di persone prive di radici ebraiche che approdano a forme di ebraismo passando dal cattolicesimo al protestantesimo alla lettura del testo biblico. A Medellìn, in Colombia, dove negli anni di Pablo Escobar e del cartello della droga la comunità ebraica è stata falcidiata dall’emigrazione verso gli Stati Uniti e Israele, è un gruppo nato così a gestire oggi la sinagoga.
È una realtà che ha fatto discutere.
Spesso se n’è parlato in termini di opportunismo e voglia di riscatto economico e sociale – come di un tentativo di lasciare una realtà difficile attraverso la conversione, tanto che a un certo punto Israele ha bloccato l’immigrazione. Senza trascurare questo aspetto, tante testimonianze raccontano una profonda e sincera ricerca d’identità, un desiderio potente di ricrearsi che parla allo spirito del nostro tempo.
Daniela Gross
(Nell’immagine Segundo Villanueva, al centro, con due amici nella città di Cajamarca sulle Ande: la foto risale al 1955)
Un’argentina a New York
Nata in Argentina, Graciela Mochkovfsky è stata corrispondente politica per La Nación. Ha collaborato con El País e altre pubblicazioni in America latina, Europa e Stati Uniti fra cui The Atlantic, The Paris Review e il New Yorker per cui tiene una rubrica sulla realtà Latina. È autrice di sei libri in spagnolo. Il primo, nel 2003, è dedicato al giornalista argentino Jacobo Timerman, perseguitato negli anni Settanta dalla giunta militare di Videla, istradato in Israele e autore del memoir Prisoner Without a Name, Cell Without a Number (1981). Da quest’estate Mochkovsky è alla guida della Craig Newmark Graduate School of Journalism della City University of New York, l’unica facoltà pubblica di Giornalismo nel Nordest. Fa parte della scuola dal 2016, quando aveva lanciato il primo master di giornalismo bilingue in inglese e spagnolo del paese. Tre anni dopo, aveva realizzato il Center for Community Media per supportare le centinaia di nuovi media che negli Stati Uniti raccontano gli immigrati e le comunità “di colore”.
(6 gennaio 2023)