Adolfo Kaminsky (1925-2023)

È morto a 97 anni il fotografo antifascista Adolfo Kaminsky, soprannominato “il falsario di Parigi”. A 17 anni era entrato a far parte della Resistenza francese, specializzandosi nella falsificazione di documenti di identità. Un talento che permise a migliaia di ebrei di salvarsi dalla deportazione. Della sua storia Pagine Ebraiche aveva parlato in occasione di una mostra al Musée d’art e d’histoire du judaïsme di Parigi.

“Restare svegli. Il più a lungo possibile. Lottare contro il sonno. Il calcolo è semplice. In un’ora riesco a fare trenta documenti falsi. Se dormo un’ora, trenta persone moriranno”. Così Adolfo Kaminsky, figura fondamentale per la Resistenza francese, racconta la sua angoscia per il meccanismo infernale in cui era entrato a soli diciassette. È stato il falsario della Resistenza, a Parigi, e per anni la sua vita è stata una corsa continua contro la morte, una corsa in cui ogni minuto aveva un valore enorme.
Per trent’anni ha messo al servizio le sue straordinarie capacità al servizio di innumerevoli cause, per idealismo, per seguire i propri principi. Si era avvicinato alla Resistenza dopo l’internamento a Drancy, da cui era riuscito a salvarsi grazie alla nazionalità argentina – era nato a Buenos Aires nel 1925 in una famiglia ebraica originaria della Russia, che però dal 1932 si era trasferita in Francia – e partendo dalle sue competenze come chimico era arrivato a farsi valere come falsario. Lo stesso ruolo che avrebbe poi assunto nell’ambito delle organizzazioni resistenti ebraiche, dagli Éclaireurs israélites, alla Sixième et all’Organisation juive de combat, prima di arrivare poi a collaborare coi servizi segreti francesi, fino al 1945. Per continuare nell’immediato dopoguerra per l’emigrazione clandestina verso l’allora Palestina: prima con l’Haganah e poi per la banda Stern. Lo chiamavano “le technicien”, il tecnico, quando negli anni Cinquanta e Sessanta prestava la sua opera per gli indipendentisti algerini, i rivoluzionari sudamericani e i movimenti di liberazione del Terzo Mondo. Senza mancare di aiutare – sempre senza farsi pagare, a rischio della propria vita e con immensi sacrifici – anche coloro che combattevano contro le dittature di Spagna Portogallo e Grecia.
Poneva però limiti chiari, come è stata chiara la sua totale indisponibilità a collaborare con i gruppi violenti emersi in Europa negli anni Settanta. “Adolfo Kaminsky. Faussaire et photographe” è la mostra con cui il Musée d’art e d’histoire du Judaïsme di Parigi rende onore a questo personaggio straordinario, protagonista di una vita da falsario, che è anche il titolo scelto per il libro del 2009 in cui la figlia Sarah ne racconta la storia. Tradotto in Italia da Colla Editore è una biografia scritta come un romanzo, appassionato e appassionante, una storia di clandestinità e impegno, di inseguimenti e di fughe che attraversano un secolo in cui poteri politici, odio razziale, ideologie e lotte dei popoli per la libertà e la dignità umana si intrecciano e confrontano, senza pietà. Una vicenda che torna in Changer la donne, il volume collettivo appena uscito che, come la mostra, racconta sia l’attività clandestina di Kaminsky che il suo rapporto con la fotografia. Scatti poco noti, la ricerca di un’immagine si intreccia con la ricerca della verità di un luogo, un volto, un paesaggio. Sono immagini scattate da un attento osservatore della realtà, della strada, del mondo del lavoro. Uno sguardo allo stesso tempo generoso e avuto, pieno di empatia, capace di comporre immagini che sembrano quadri, in una reinvenzione del reale che nulla ha a che fare con l’anonimato, con la clandestinità. Tutto qui è esposto, vivo. Vero.

Ada Treves, Pagine Ebraiche Luglio 2019

Di seguito un brano dal volume Adolfo Kaminsky. Una vita da falsario (Colla editore), curato da Sarah Kaminsky, figlia del fotografo-falsario.

Parigi, gennaio 1944. Arrivo davanti all’entrata del métro di Saint-Germain-des-Prés e mi ci infilo senza perdere tempo. Devo raggiungere la zona est di Parigi, verso Père-Lachaise. Mi siedo su uno strapuntino, in disparte dagli altri. Tengo stretta la borsa, dove ho qualcosa di prezioso. Conto le stazioni che passano. République: ne restano ancora tre. Rumori e voci arrivano dal vagone vicino. Il treno fischia da diversi secondi, ma le porte non si chiudono. Le voci si trasformano in passi, decisi, secchi, assolutamente tipici. Li riconosco immediatamente.
Sento nel petto una fitta bruciante quando una pattuglia di miliziani fa irruzione nel convoglio, fasce al braccio bene in vista e baschi calcati sui crani rasati a zero. Un cenno al conduttore e
le porte si richiudono. «Controllo documenti! Perquisizione generale!» Non mi giro verso di loro, aspetto il mio turno, in fondo al vagone. Anche se da tempo sono abituato ai controlli della polizia, oggi ho paura Conservare la calma, camuffare le emozioni. Soprattutto, stare attenti che non mi tradiscano, non oggi, non ora. Impedire alla mia gamba di battere il tempo immaginario di una musica sfrenata. Impedire a questa goccia di sudore di attraversarmi la fronte. Far cessare l’afflusso di sangue nelle vene. Rallentare i battiti del cuore. Respirare lentamente. Soffocare la paura. Mascherare l’angoscia. Stoico. Va tutto bene. Ho una missione da compiere. Niente è impossibile.
Là in fondo, proprio dietro, controllano i documenti, perquisiscono le borse. È necessario che io scenda alla prossima fermata. C’è un miliziano davanti a ogni porta. È evidente che non ho nessuna possibilità di evitare il controllo. Allora prendo l’iniziativa, mi alzo e mi dirigo con sicurezza a presentare i documenti al miliziano che viene verso di me, facendogli segno con la mano che tra poco devo scendere. Lui si mette a leggere ad alta voce i dati della mia carta d’identità: «Julien Keller, anni diciassette, tintore, nato ad Ain, dipartimento della Creuse…» Volta il documento per esaminarlo da ogni parte, d’un tratto alza gli occhietti sospettosi e scruta lamia reazione. So che non può intuire la mia paura, io appaio sereno. So anche, con certezza, che i miei documenti sono in regola. Dopotutto li ho fatti io.
«Documenti in regola… Keller, siete alsaziano?» «Sì». «E lì dentro cos’avete?» Proprio quello che volevo evitare. Il miliziano indica la borsa che tengo in mano, stringendo nervosamente l’impugnatura. In un attimo ho l’impressione che la terra mi si spalanchi sotto i piedi. Vorrei filarmela a gambe levate, ma ogni tentativo di fuga sarebbe inutile. Una venata di panico mi gela il sangue. Bisogna improvvisare, e subito. Fare una faccia stupita, la più idiota possibile. «Siete sordo? Cosa c’è lì dentro?» chiede il miliziano alzando la voce. «Il mio panino, volete vedere?»
Faccio seguire il gesto alla parola, e apro la borsa. Nessun problema, c’è proprio un panino dentro. Purché sia abbastanza grosso da coprire quello che devo nascondere ad ogni costo. Dopo un secondo di esitazione, il miliziano mi squadra, fissandomi negli occhi, alla ricerca di qualche incertezza. Io gli offro il mio sorriso più stupido. È una cosa che mi è sempre venuta bene, ogni volta che è stato necessario: avere l’aria da perfetto scemo. Passano dei secondi che sembrano ore.
Siamo arrivati alla stazione di Père-Lachaise, e il treno fischia aprendo le porte.
«Va bene, potete andare».