Leone Efrati, pugile e simbolo:
una storia sottratta all’oblio

Dal titolo mondiale dei pesi piuma conteso a Leo Rodak nel dicembre del 1938, in una Chicago ribollente di passione sportiva, all’Italia delle leggi razziste in cui scelse di tornare poche settimane dopo per stare accanto alla moglie Ester e al figlio Romolo e in cui la persecuzione dei diritti da poco avviata dal regime sarebbe presto diventata anche persecuzione delle vite, risucchiandolo nell’abisso senza ritorno del lager.
Una vicenda a lungo dimenticata quella del pugile romano Leone Efrati, cui Antonello Capurso dedica il suo ultimo libro La piuma del ghetto (ed. Gallucci). Un romanzo, ma con solide basi storiche, che accompagna il lettore con una serie di scene che si imprimono nella mente e nel cuore. Formidabile esempio di storytelling tra Memoria e sport, al centro di una serata svoltasi alla Fondazione Museo della Shoah alla presenza dei tre figli del pugile: Romolo, Letizia ed Elio.
La serata, in collaborazione con il Centro di Cultura della Comunità ebraica di Roma, si è aperta con i saluti del presidente della Fondazione Museo della Shoah Mario Venezia e dell’assessore comunitario alla Memoria Massimo Finzi. A dialogare con l’autore lo storico Amedeo Osti Guerrazzi e il giornalista Adam Smulevich.
Molti i temi affrontati. Tra cui la parabola, unica nel suo genere, dei pugili dell’ex ghetto. Tra loro Pacifico Di Consiglio, il leggendario “Moretto” combattente a testa alta contro fascisti e nazisti la cui prontezza di spirito fu decisiva per salvare Romolo, che aveva allora sette anni, dalla deportazione ad Auschwitz.
Grande l’emozione di Romolo nel volgere lo sguardo verso la valigetta che raccoglie alcune vestigia del padre recuperata alla palestra Audace in cui si era formato come atleta e come uomo e poi donate alla Fondazione. La circostanza che ha fatto interessare Capurso alla storia di Efrati, portandolo a scrivere prima uno spettacolo teatrale e poi questo libro. “In quella valigia – le parole del figlio – c’è tutto”.