I 100 anni di Giorgio Ottolenghi
Un secolo di ideali e impegno

“Sono stato fortunato!”.
Sembra troppo banale fare a Giorgio Ottolenghi la classica domanda sul “segreto per arrivare in forma a 100 anni”, ma lui ci anticipa e la risposta non è “un bicchierino di liquore al giorno” o “mangiare tanta verdura”. Per lui c’entra solo la buona sorte: “La mia vita poteva finire per colpa dei fascisti dopo il ’38, ad Auschwitz, se ci avessero respinto alla frontiera svizzera nel 1943, oppure per una malattia: tempo fa un collega medico disse che i miei polmoni presentavano i segni di una tisi che avevo fatto senza accorgermene”. Giorgio Ottolenghi ricorda anche il ruolo della fortuna nel terribile incidente stradale che lo ha coinvolto nel 1970: “L’auto è precipitata dal ponte dell’autostrada vicino a Novara, ha saltato un canale e la linea elettrica ed è atterrata sulla sottostante provinciale per la val d’Ossola”. Ha conservato l’articolo de La Stampa con la foto dell’auto accartocciata sotto il titolo “Tornati vivi” con cui il quotidiano annunciava l’ammaraggio dell’Apollo XIII. “E invece sono qui – continua – non so perché. E non sono nemmeno l’unico: ci sono altri 36 centenari a Casale quest’anno, potremmo fondare un club”. Non sappiamo come siano le vite degli altri 35, ma la sua ne contiene molte altre: è stato profugo, chimico, medico, gestore di un cinema e soprattutto presidente della Comunità ebraica di Casale Monferrato per 62 anni. Oggi esce poco (l’ultima volta in sinagoga per Yom Kippur), ha festeggiato il compleanno insieme a sua moglie Adriana Torre e la famiglia riunita nella sua casa in centro a Casale.
Tra i regali ricevuti una festa in streaming con tanti amici a cui ha partecipato tra gli altri la presidente dell’UCEI Noemi Di Segni: “Porto l’abbraccio dei 25mila ebrei italiani e delle 21 Comunità. I tuoi 100 anni non sono solo i tuoi, sono anche i nostri per quanto tu hai dato alle Comunità e alla tua città, all’ebraismo”. Tra i tanti intervenuti anche rav Ariel Finzi, rabbino capo della Comunità ebraica di Torino, la sorella minore di Giorgio, Fulvia, in collegamento da Israele, e naturalmente Elio Carmi, presidente della Comunità ebraica di Casale. “Come Giorgio non c’è nessuno – conferma Elio – in 60 anni di presidenza ha cavalcato la modernità della Comunità di Casale. È stato la nostra fortuna, siamo una squadra fatta di poche persone, ma con una forza enorme, per questo continueremo a esserci, materialmente ed ebraicamente. Giorgio continua a essere presente nella continuità di quello che facciamo. Io sono orgoglioso e fraternamente commosso di essere vicino a lui”.
Giorgio Salvatore Ottolenghi è nato il 18 gennaio del 1923 a Casale in quella che oggi è piazza San Francesco. La sua famiglia è parte della storia stessa della città: già all’inizio del Settecento troviamo menzionato il rabbino Ephraim Ottolenghi che, tra i suoi tanti figli, ha anche Joseph Solomon Ottolenghi, nato a Casale nel 1711, che finirà per arricchirsi in America con il commercio della seta (un’attività molto praticata dagli ebrei monferrini), diventando senatore della Georgia.
Un po’ più modestamente il padre di Giorgio, Giuseppe Ottolenghi, è avvocato, la madre, Valeria Artom, discende da una famiglia ebraica di Alba. Giorgio ha anche una sorella minore, Fulvia, che oggi vive in Israele. Nel 1926 si trasferiscono nel bel palazzo settecentesco in cui la famiglia Ottolenghi vive ancora oggi. “Ma all’epoca qui non c’era nulla, ci lavavamo in un catino…”. Se gli chiedete come si immaginava all’epoca il futuro sorride: “Mi domandavo perché non inventassero un telefono da portarsi in tasca, sarebbe stato molto più pratico”.
Giorgio ricorda anche di essere cresciuto in una città dove le famiglie ebraiche erano da tempo completamente integrate nella società civile. “Non c’erano problemi, stavamo discretamente bene. Tra me e i miei compagni non c’era alcuna differenza a parte il fatto che loro andavano a messa e io in sinagoga”. Anche per questo la promulgazione delle leggi razziste nel 1938 coglie la Comunità casalese di sorpresa. Giorgio Ottolenghi deve lasciare la scuola: “Fui costretto a lezioni private. Andai anche dal prof. Giuseppe Ottolenghi, insigne grecista”.
Nel 1940 Giorgio Ottolenghi vive l’esperienza del lavoro obbligatorio alla Cartiera Burgo, dove viene inserito nel laboratorio. “Qui conobbi un ebreo polacco, rifugiato a Casale: un certo Wolf Walter, ospite della nostra comunità. Era uno studente d’ingegneria, lavorò con me nel laboratorio e fece anche il traduttore dal tedesco per parecchi mesi. Mi interessai anche alla sorte di un suo cugino, Wolf Mietek. Era medico. Parlando con l’allora presidente dell’Ospedale avv. Pagliano e con il primario radiologo dott. Roncoroli, riuscii a farlo lavorare in incognito, retribuito nascostamente dal primario, con falsi documenti”.
Dopo l’8 settembre del 1943 la situazione precipita. La famiglia Ottolenghi comprende che rimanere in Italia è troppo pericoloso. “Nel periodo più drammatico – ricorda ancora Giorgio – ci si muoveva poco, solo per le vie del centro. I confini del ghetto erano una naturale protezione. Seppi che mi cercavano per arrestarmi. Il 5 dicembre del 1943 io e la mia famiglia abbandonammo Casale per raggiungere clandestinamente la Svizzera, ma era molto difficile capire dove era meglio passare senza correre il rischio di essere respinti e consegnati direttamente alle autorità di Salò o della Germania. Un giro di conoscenze ci aveva portato a incontrare un contrabbandiere che organizzava le fughe. Ci ha accompagnato a Como, ma, una volta lì ci hanno detto che era meglio cercare un’altra strada. Alla fine, dopo un lungo giro, siamo arrivati alla frontiera di Chiavenna. Il passaggio del confine è stata l’ora più lunga della mia vita. In tutti gli anni successivi nessuno mi ha mai spiegato perché una nazione organizzata come la Svizzera facesse scelte così arbitrarie sulla vita delle persone”.
Ottolenghi confessa il profondo pessimismo di quel momento: “Ho pensato: io in Italia non ci torno più”, ma poi il sentimento si diluisce. In Svizzera continua a studiare e l’assegnazione in un campo nel bernese sembra un altro colpo di fortuna. “Il posto era ben organizzato, non aveva cancelli e potevamo andare alla cittadina vicina. Gli internati erano impegnati a fare terrazzamenti per le vigne, ma io, per una serie di coincidenze, diventai il ragazzo delle consegne: al mattino prendevo il carretto e andavo in città per ritirare la posta e la merce per il campo. Nei primi di maggio del 1945 gli alleati fecero transitare un treno di prigionieri di guerra tedeschi per rimandarli in Germania, lì ci rendemmo conto che la guerra era davvero finita”.
Il ritorno a Casale avviene nell’estate del 1945, “La casa, per fortuna, c’era ancora. Mio zio Fernando Ottolenghi, che era ingegnere specializzato in agraria, era riuscito a rimanere in Italia. Approfittando delle sue amicizie aveva trovato rifugio nelle cascine della zona. Così, alla caduta di Mussolini, potè rivendicare l’immobile occupato abusivamente”. Giorgio Ottolenghi riprende in mano la sua vita da dove l’aveva interrotta, termina gli studi nel 1948, laureandosi a Genova in chimica, e comincia a lavorare per un’industria del settore associata all’Olivetti. Nel 1955, però, un nuovo cambiamento “L’azienda venne venduta e l’Olivetti mi offrì allora di andare a Roma con un incarico amministrativo in attesa di ricollocarmi. Sono rimasto lì due anni, di cui ho bellissimi ricordi, ma intanto l’offerta non si concretizzava e non avevo voglia di continuare la carriera in un ramo che non mi interessava. Nel frattempo, era mancato mio zio, fu lui a comprare i locali del Cinema Moderno in via Roma di cui aveva la gestione Giovanni Daghino, così, tornando a Casale, ho cominciato a occuparmi della sala”.
Il cinema è stato determinante anche per un’altra svolta fondamentale nella vita di Giorgio Ottolenghi, con un episodio che sembra davvero uscito dalla sceneggiatura di una commedia sentimentale. Anche qui, a parer suo, la fortuna sembra c’entrare parecchio. “Nel settembre del 1958 ero in via Pomba a Torino per ritirare le pellicole da proiettare in settimana e ho incontrato per caso un vecchio amico di Milano che si era trasferito in città. Mi ha invitato a casa sua per un caffè e lì, insieme a sua moglie, c’era una cugina della signora che non avevo mai visto. Lui deve essersi accorto che la ragazza mi aveva colpito perché dopo mi ha chiesto: ma ti piace? Gli ho confessato di sì. E allora mi ha risposto che dovevo fare in fretta a dichiararmi perché non sarebbe rimasta per molto”.
La ragazza è, ovviamente, Adriana Torre e Giorgio prende molto sul serio le parole dell’amico. “Mi ha chiesto in moglie la seconda volta che mi ha visto – ricorda Adriana – e io mi sono messa a ridere perché di fatto non ci conoscevamo”. L’urgenza però è giustificata: quella ragazza che viene da una famiglia ebraica di Alessandria sta per prendere letteralmente il volo. Adriana ha infatti appena conseguito la laurea in giornalismo a New York e quel giorno è in transito a Torino per puro caso: si è concessa una vacanza in Italia per trovare i parenti prima di tornare in America, anzi, avrebbe dovuto essere già oltreoceano, ma la nonna aveva insistito perché il soggiorno si prolungasse. L’incontro con Giorgio avviene “a valigie aperte” per usare la sua espressione. Ma quelle valige Adriana non le chiuderà mai, ritornerà negli USA solo due anni dopo, in occasione della nascita del loro primo figlio Joseph, per tutti Joey.
Nel 1958 Giorgio Ottolenghi assume anche l’incarico che lo segnerà più di tutti nella vita. “Un altro scherzo della sorte, fino ad allora il presidente era mio padre, ma siccome eravamo in pochi sono subentrato e tutte le volte che c’era un’elezione mi dicevano: ‘per stavolta fallo ancora tu poi la prossima troveremo qualcun altro’”. La fortuna che si abbia procrastinato l’incarico quasi all’infinito in questo caso non fu solo per Giorgio Ottolenghi, ma per tutta la storia dell’arte ebraica. “Dopo la guerra la sinagoga era in condizioni disastrose, nella sala da preghiera stava per crollare il tetto. C’erano ragnatele che andavano dal soffitto al pavimento, sembravano tende. Non c’erano fondi per il restauro e anche se l’avessimo restaurata chi ci sarebbe andato? Ormai erano rimasti pochi ebrei a Casale”. La fortuna però provvede: “Una sera vedo un manifesto che annuncia la conferenza dell’architetto Luciano Mazzarino, direttore della Sovraintendenza delle Belle Arti di Torino. Mi ricordo che era un giovane che aveva cominciato lavorando nello studio di mio zio e decido di andarci per salutarlo”. Quella serata finisce in un caffè, insieme a lui e all’architetto Giulio Bourbon e vede una decisione storica: “Abbiamo cominciato a parlare della sinagoga. Mazzarino e Bourbon mi hanno garantito che avrebbero potuto accedere ai finanziamenti del ministero. Ho chiesto a Bourbon se potesse occuparsene e lui mi ha detto che aspettava solo questo. Ho risposto solo ‘Domani le porto le chiavi’”. La sinagoga riaprirà le porte nel 1969, meritandosi da molti l’appellativo di sinagoga più bella d’Europa, poi si inaugura il Museo degli Argenti nei matronei a cui seguirà il resto del complesso. È la prima volta che lo Stato italiano finanzia il recupero di un bene che appartiene a una confessione non cattolica. Oggi, come tutti i cittadini di Casale sanno bene, il complesso ebraico di vicolo Salomone Olper è il sito più visitato della provincia di Alessandria e una continua fucina di attività culturali. E proprio in quegli anni Giorgio Ottolenghi comincia un’altra avventura. A quasi cinquant’anni si laurea in medicina e consegue anche la specializzazione in medicina nucleare. “Era un debito con me stesso, siccome mi avevano cacciato da scuola avevo finito per fare chimica perché era l’unica cosa che mi permetteva di continuare a studiare. Ma la medicina era sempre stata la mia passione”. Lo studio che apre vicino alla sua abitazione diventa un punto di riferimento per la salute di molti casalesi.
Nel giugno del 2020, dopo 62 anni ininterrotti alla guida della Comunità (un record assoluto per tutte le comunità Italiane), Giorgio Ottolenghi lascia l’incarico di presidente a Elio Carmi. Per il grande impegno profuso a favore della Comunità è stato insignito del titolo di Presidente emerito. L’intera città gli è riconoscente per il suo lavoro che ha contribuito a rendere Casale famosa nel mondo. Quando vi dirà che è stata solo fortuna non credeteci troppo.

Alberto Angelino