Pagine Ebraiche – L’intervista
a rav Mayer Stambler
“La nostra mitzvah è salvare vite”
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Uno dei momenti più difficili per rav Mayer Stambler, presidente della Federazione delle comunità ebraiche d’Ucraina, è stato a marzo 2022. L’aggressione russa era al suo inizio. Le previsioni più cupe – considerate allora le più credibili – immaginavano una conquista rapida da parte dell’esercito di Putin. A Dnipro, dove il rav vive dal 1991, come in altre città si lavorava notte e giorno per dare la possibilità alle persone di evacuare. Le sirene suonavano di continuo.
“Ogni volta che scattavano gli allarmi anti-missile e scendevano nei bunker, i bambini piangevano. Ho dieci figli e tre nipoti. La piccola di tre anni si aggrappava a noi così forte, era semplicemente… Spero non rimanga traumatizzata per tutta la vita per questo”. Arrivavano notizie sull’avanzata russa, che stava accerchiando la centrale di Zaporizhzhia, un’ottantina di chilometri a sud di Dnipro.
“Ho capito che avrei dovuto evacuare la mia famiglia. Ho scritto a mia moglie: preparati, andate via domani mattina”. La risposta è stata un no. “O andiamo via insieme o nulla”. È stata la prima volta, spiega il rav, in cui ha mentito alla moglie. “Le ho detto che li avrei raggiunti pochi giorni dopo”. Era un giovedì sera e per venerdì mattina la Comunità ebraica aveva organizzata la partenza di tre autobus. “Ho chiamato una delle persone con cui coordino i viaggi e ho chiesto: quanti posti liberi hai? ‘Dodici’. ‘Fermali e chiudi la lista’”. Oltre alla famiglia il rav, con l’aiuto della moglie, convince alcuni amici a partire. L’appuntamento è per le undici del mattino. “Alle 10.30 il mio collaboratore mi chiama allarmato e mi dice: ‘Dove siete? Qui non c’è posto. Abbiamo tre autobus per 150-160 persone e qui fuori ce ne sono almeno 500 che si spingono e cercano di salire’”. Forse meglio rinunciare. “No no no, venite”. Nella folla il rav spinge avanti bagagli e famiglia. Si fa strada tra gli sguardi di chi non può salire. “Sguardi di chi, come tutti in quei giorni, pensa: ‘Rimanere vuol dire morte. Salire sul bus, vivere’”. Tra loro c’è un volto che Stambler riconosce subito. “Una mia ex studentessa, che aveva studiato con me per vent’anni. Avevo anche celebrato il suo matrimonio. E mi dice: ‘Questo è il terzo giorno che cerco di andare via. Tua moglie mi ha chiamato e mi ha detto di venire. E ora tu mandi la tua famiglia e lasci noi qui’”. Parole dure, ma comprensibili in quel momento di grande paura. “Non lo dimenticherò mai. E non la biasimo. La capisco. È una situazione assurda. E io cercavo di spiegare: ‘Io resto qui. Credetemi, se la mia famiglia resterà qui, per me sarà più difficile lavorare e salvare altre vite’”.
Ma in quella situazione ogni spiegazione suona poco convincente. “Le ho promesso che avremmo trovato un altro autobus. E così è stato, lo stesso giorno. Ma nel mentre io ho detto a mia moglie: ‘Me ne vado, non posso vedere questi occhi che mi fissano’. Da allora non sono più tornato a vedere gli autobus andare via”. Ma ha continuato a lavorare giorno e notte per coordinare le diverse iniziative avviate dalla Comunità ebraica per aiutare le persone a vivere in questo conflitto. O a lasciarlo. Un impegno gestito soprattutto dal suo ufficio, da dove parla con Pagine Ebraiche in giorni di grande tensione a Dnipro: un missile russo ha sventrato un edificio, uccidendo decine di persone. Al momento il rav è al buio. Come spesso accade, manca l’energia in città.
A distanza di un anno dall’inizio dell’aggressione russa, qual è il suo pensiero su questo difficile periodo?
Stiamo vivendo un miracolo lungo un anno: il mondo intero non credeva che l’Ucraina sarebbe stata in grado di sopravvivere per più di una settimana. E invece siamo qui. Certo noi non abbiamo avuto molto tempo per pensare. Siamo stati sempre concentrati a dare il nostro contributo. Ho amici e studenti in prima linea che combattono per l’Ucraina. Ma anche noi lottiamo: come ha detto Zelensky, ognuno combatte nel suo campo. Noi impegnandoci a fornire aiuti, cibo, una via di fuga. Non avrei mai pensato di trovarmi in questa situazione. Come emissari del movimento Chabad ci preparano a provvedere a ogni necessità delle Comunità: costruire scuole ebraiche, cucine casher, e cosi via. Ma nessuno ti prepara a diventare un centro logistico impegnato a fornire medicinali, a coordinare soccorsi. Grazie a Dio abbiamo le energie per farlo: quando devi buttarti in acqua lo fai, perché non c’è nessun altro che possa farlo per te. E con l’aiuto di Hashem abbiamo salvato migliaia di vite. È la nostra mitzvah.
Come funziona la vostra rete solidale?
Abbiamo passato gli ultimi trent’anni a costruire una catena che permettesse di fornire alle nostre comunità tutti i beni necessari per una vita ebraica. Parliamo di 180 località. Per cui l’infrastruttura c’era. Solo che prima si trattava di far arrivare libri di preghiera, candele per Hanukkah, matzot per Pesach. Ora beni di prima necessità, medicine, persone. Il tutto sotto i missili e il pericolo di essere colpiti. La cosa triste è che molti nostri donatori oggi sono diventati destinatari degli aiuti.
Il Genesis Prize, il “Nobel ebraico”, quest’anno è stato conferito dalla giuria a realtà ebraiche come la vostra. Che significato ha questo riconoscimento?
Ho pensato alla Shoah e a come all’epoca il mondo si sia girato dall’altra parte. Penso che oggi la lezione sia stata compresa e tutti stiano cercando di aiutare il popolo ucraino. Ci sono volontari da tutta Europa, dagli Stati Uniti, che rischiano la vita per dare una mano. Certo vediamo le torture e le violenze russe, ma ci sono anche gesti di grande altruismo e solidarietà a tutti i livelli, dai semplici cittadini alle autorità. E noi siamo grati per questo.
Israele contribuisce con aiuti umanitari, ma per ragioni strategiche ha evitato di fornire armi all’Ucraina. Cosa pensa di questa situazione?
Questa guerra richiede di mettere da parte le proprie comodità. Richiede di fare ciò che è giusto, certo senza compromettere la propria esistenza. Ma bisogna scegliere. Non vorrei essere il Premier israeliano, capisco si trovi in una situazione delicata. Però non ho dubbi che sia il momento di stare dalla parte giusta della storia. Penso che Israele lo stia facendo, lentamente. Anche perché non ci sono dubbi su chi sia nella ragione e chi nel torto in questa guerra.
Daniel Reichel
(20 gennaio 2023)