Memoria, domande, conoscenza
“E lo narrerai a tuo figlio in quel giorno dicendo: in grazia di questo operò il Signore per farmi uscire dall’Egitto” (Shemot 13; 8).
Oggi si celebra in tutta l’Europa il Giorno della Memoria, in ricordo del 27 Gennaio 1945 quando fu liberato il campo di sterminio di Auschwitz. Se ne parla in ogni contesto: scuole, università, palinsesti televisivi e manifestazioni pubbliche volute dalle autorità nazionali e locali. La partecipazione delle nostre Comunità è indubbiamente sempre disponibile e super attiva; recarsi a portare le nostre testimonianze personali o indirette o, dove è possibile, con coloro che, miracolosamente scampati a quel disastro umano, tentano di raccontare, per tenere allenata la memoria delle nuove generazioni. Allenare la memoria perché purtroppo oggi la memoria dei giovani deve mantenere un costante allenamento, per non cadere nell’oblio di ciò che li circonda. Tutto questo avviene da circa un ventennio; da quando, con una legge del Parlamento europeo, si sanciva questa giornata come il Giorno della Memoria della Shoah.
I giovani sono l’obiettivo dell’insegnamento della storia della Shoah e di tutto ciò che accadde, nel nostro caso particolare in Italia, ma anche nel resto d’Europa: dalle leggi razziali o razziste fino alla Shoah e alla liberazione dal Nnzifascismo. Nella nostra parashà si parla ampiamente di memoria, di insegnamento e soprattutto di giovani generazioni: “Ve higgadtà le vinkhà ba iom haù – Lo narrerai a tuo figlio in quel giorno”. La mitzwà di narrare l’uscita dall’Egitto è alla base della nostra tradizione, poiché è l’inizio della nostra storia, ma anche perché non si possa mai dimenticare il tentativo degli egiziani di annientare il nostro popolo, togliendo loro ogni forma di dignità e identità. Il protagonista della Haggadà di Pesach non è tanto il più anziano della famiglia che inizia il racconto, quanto il più giovane che formula le famose quattro domande – ma nishtannà – che determinano poi la narrazione della storia.
La Haggadà è il memoriale del nostro popolo e, nonostante la numerosa distanza di anni che ci separa da quel tempo, noi abbiamo ancora il dovere di insegnare al nostro figlio (a seconda della sua capacità di apprendimento) l’uscita dall’Egitto, sempre nello stesso modo, perché “ba iom ha hù – in quel giorno” vuol dire che, nonostante sia trascorso molto tempo, non avrai alcun diritto di dimenticare, mantenendo con le giovani generazioni lo stesso atteggiamento nell’insegnare loro anche quando tutto sembra passato.
La stessa cosa vale anche per quello che fu la Shoah: abbiamo il dovere di far sì che siano i giovani a porre domande, attraverso la curiosità che deriva dal trovarsi davanti ai luoghi e alle testimonianze di chi ha vissuto quei barbari momenti.
Nel primo brano dello Shemà Israel troviamo scritto: “Ve shinnantam le vanekha” (Devarim 6;7); la traduzione di questo imperativo, suona con le parole: “lo insegnerai ai tuoi figli” ma, secondo alcuni commentatori il verbo “shinnantam” deriva dal termine”shen – dente”.
Essendo il dente aguzzo, punzecchia. Un buon insegnante o un genitore, nel mettere in pratica l’insegnamento ai più giovani, deve stimolare la loro curiosità, punzecchiandolo, portandoli così a fare più domande possibile. I chakhamim della mishnà sentenziano nel trattato di avot: “lo ha baishan lamed – il timido non studia” (Avot 2;5) poiché si vergogna di porre domande.
È per questo che, come avviene per Pesach che ricorda il sacrificio degli ebrei per l’ottenimento della libertà e l’indipendenza, anche riguardo a tutto ciò che fu in quel barbaro periodo, abbiamo il dovere di mettere i giovani nella condizione di domandare. Soltanto attraverso le domande si può ottenere una conoscenza buona e leale.
Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Venezia