Scuola d’italiano ai profughi,
la lezione del presidente
della Comunità ebraica

C’è chi arriva dall’Ucraina, in fuga dall’aggressione militare russa: non se ne sono mai visti tanti come nell’ultimo anno. Ma l’atlante della sofferenza è vasto e copre più territori e continenti: dalla Nigeria al Bangladesh, dalla Georgia all’Egitto. C’è chi ha lasciato la propria patria per effetto di guerre e persecuzioni di lungo corso. Chi per assenza di opportunità educative e lavorative. Chi in cerca, semplicemente, di una vita migliore.
Hanno molte provenienze i profughi accolti alla scuola “senza frontiere” di Mantova, intitolata alla memoria del suo fondatore Sandro Saccani, in alcuni locali messi a disposizione del Comune sotto l’egida dell’Acli. Vi si insegnano le basi della lingua italiana, i primi essenziali rudimenti dei quali impratichirsi per conquistare spazi di autonomia e, appena possibile, anche un lavoro. Una delle tante realtà che, su base volontaristica, si sforzano di offrire servizi e assistenza a chi più ne ha bisogno ed è sprovvisto pressoché di ogni cosa: a partire da una conoscenza, anche minima, della nuova società e dei suoi codici comunicativi.
Ad animarla, da qualche mese, sono due nuovi insegnanti: il presidente della Comunità ebraica mantovana Emanuele Colorni e sua moglie Loredana Leghziel. “Non potevamo non dare l’esempio. Noi ebrei, per primi, sappiamo cosa significa trovarsi in una condizione di precarietà esistenziale” racconta Colorni, che è nato proprio in tempo di guerra, nel pieno delle persecuzioni antiebraiche sferrate dal nazifascismo. Si tratta di un contesto non semplice in cui operare: “L’età media è di circa 25-30 anni. Davanti ai nostri occhi, purtroppo, c’è un mondo intero. Esprimerci in inglese o in altre lingue europee talvolta non ha effetti di alcun tipo. Molti dei nostri ‘studenti’, infatti, non conoscono i caratteri latini. E così ci dobbiamo aiutare per forza di cose con gli strumenti digitali, inserendo singole parole o frasi nello spazio di traduzione. È il caso, ad esempio, dei profughi del Bangladesh. Spesso parlano soltanto la lingua bengali”.
I coniugi Colorni sono arrivati alla scuola “senza frontiere” grazie alla segnalazione di un iscritto alla Comunità ebraica mantovana che si occupa di aiutare i profughi nel disbrigo delle pratiche burocratiche e legali. “È stata una segnalazione provvidenziale: questo spazio di formazione ci ha subito colpiti per l’importanza del compito che si è assunto da oltre vent’anni, svolgendo un servizio di cui ben pochi, anche tra i nostri concittadini, si fanno carico. Il fatto che io e mia moglie siamo gli unici insegnanti ad operare al suo interno la dice lunga su quanto resti da fare per far crescere un certo livello di consapevolezza pubblica”.
L’impegno è di qualche ora la settimana. “Non pretendiamo di fare miracoli e, lo ammetto, si va avanti con fatica. Le classi cambiano continuamente: chi c’è oggi, non è detto che ci sia anche domani. Talvolta ci si sente soli, quasi impotenti. Ma continueremo fin quando possibile con la massima disponibilità e determinazione. La Comunità ebraica, anche in ragione del suo vissuto storico, non può non essere in prima linea: quello delle migrazioni è un tema che non possiamo e non dobbiamo ignorare”.
Rivolto sempre alla società mantovana, è anche l’impegno per far conoscere i luoghi ebraici della città in collaborazione con la sezione locale del FAI (il Fondo Ambiente Italiano). Oltre un centinaio le persone che hanno preso parte a una recente visita nella sinagoga Norsa-Torrazzo, una delle sei che si trovavano un tempo a Mantova. Quando, sul finire del XIX secolo venne demolito il vecchio quartiere ebraico un tempo sede del ghetto, l’edificio fu smantellato dalla sua sede originale e ricostruito tale e quale in via Gilberto Govi, all’interno della sede della Comunità. Un gioiello d’identità e una delle sinagoghe più belle d’Italia in assoluto.