Ostia Antica e la sua sinagoga,
un doppio anniversario

Nell’ottobre del 2021 un convegno internazionale aveva celebrato i 60 anni dal ritrovamento della sinagoga di Ostia Antica e i 20 anni di attività in quell’area dell’associazione Arte in Memoria motore dell’omonima biennale d’arte contemporanea di cui è stata da poco inaugurata una nuova edizione. “Quando venti anni fa proposi all’allora sovrintendente Anna Gallina di ospitare una mostra di arte contemporanea nella rovine della sinagoga lei non ebbe alcuna esitazione: accolse la proposta con entusiasmo e lavorò senza risparmiarsi per la sua buona riuscita. Non smetterò mai di ringraziarla per il suo impegno, coraggio e generosità, condivisi da tutto lo staff ostiense” la testimonianza di Adachiara Zevi, presidente di Arte in Memoria. “Era la prima volta che archeologia ed arte contemporanea, anziché guardarsi in cagnesco, cercavano un confronto tra mondi solo temporalmente distanti. Da allora oltre 50 artisti si sono avvicendati tra quelle rovine animandole e provocandole con le loro visioni sotto l’occhio, ora benevolo, ora severo, della sovrintendenza…”. Molti gli stimoli suscitati dal convegno, raccolti ora in una pubblicazione curata dalla stessa Zevi e da Alessandro D’Alessio. Di seguito un brano dall’intervento tenuto dal rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni sul ruolo della sinagoga nell’ebraismo:

Sinagoga: storia, identità, sacralità

Il luogo dove gli ebrei si riuniscono per pregare è chiamato in ebraico Beth-ha-Kenèset, dove beth è la forma costrutta di bàyit, “casa”, quindi “casa di” e kenèset deriva da una radice che indica l’entrare, il raccogliersi. Kenèset-ha-Ghedolà era il nome della “Grande assemblea” che dirigeva la vita ebraica al ritorno dalla cattività babilonese; in ebraico attuale la Kenèset è il parlamento israeliano. Ciò che si rileva da questi significati è che il luogo destinato alla preghiera nasce prima di tutto come “casa della riunione”, (si noti “della”, non di una riunione qualsiasi); luogo di riunione, di raccolta, apparentemente uno scopo civile e profano prima che religioso. Tuttavia l’uso religioso non solo prevale, ma quello profano viene negato o considerato improprio dalle fonti, a meno che non si tratti di riunioni e di assemblee in cui si discutono interessi superiori della collettività. Il termine non compare nella Bibbia ebraica, e lo troviamo per la prima volta nei testi di epoca tannaitica (primi due secoli dell’era cristiana). Il Talmud Babilonese (non quello della terra d’Israele) lo rende in aramaico nella forma be-kenishta. Il termine greco συναγωγή, da cui in latino e in italiano sinagoga, che rende il concetto originario di riunione, compare in varie fonti di epoca ellenistica, tra cui il Nuovo Testamento. Nel corso dei secoli e in funzione della dispersione ebraica, la sinagoga ha avuto altri nomi: in Italia scòla, con il corrispondente tedesco e yiddish di shul, esnoga in portoghese, sla in giudeo-arabo.
La nascita della sinagoga nell’ebraismo è il risultato di un processo molto lungo. Originariamente il culto ebraico collettivo era basato sui sacrifici che potevano essere offerti in luoghi deputati a questo, di solito in cima ad alture (bamòt) e soprattutto nel Santuario centrale, che ebbe diverse sedi fino a quando venne spostato a Gerusalemme dal re David. Vi fu una lotta di secoli per centralizzare il culto eliminando le bamòt. È dai tempi della distruzione del primo Tempio, fatta dai babilonesi nel 586 av. e.v. e dell’esilio conseguente, che si ritiene sia collocabile l’inizio di un culto sinagogale. Al ritorno dalla cattività babilonese le riunioni di preghiera periferiche affiancavano il culto del secondo Tempio e le testimonianze letterarie e archeologiche (Herodion, Masada, Gamla, il “Dioploston” di Alessandria d’Egitto di cui si parla in TB Sukkà 52b) crescono verso la fine del secondo Tempio. La distruzione del Tempio operata dai Romani nel 70 dell’e.v. trovò una situazione già consolidata e promosse la sostituzione simbolica del culto sacrificale con la liturgia sinagogale, con gli orari delle riunioni di preghiera feriali e festivi adattati a quelli dei sacrifici non più possibili nel Tempio. Da quel momento, sia nella terra d’Israele che fuori, ogni comunità di ebrei ha il suo o i suoi luoghi di riunione; ma già prima della distruzione del Tempio era nelle sinagoghe locali che gli ebrei si incontravano; è nella sinagoga, oltre che in spazi aperti, che Gesù predicava, come faranno gli apostoli in suo nome nei luoghi vari del bacino mediterraneo. La Mishnà (Meghillà 2) dettò le prime regole relative alla struttura e al rispetto dovuto al luogo, mentre erano già ben definite le regole sulla preghiera collettiva: una di queste, in particolare, la possibilità cioè che alcune preghiere essenziali e la lettura pubblica della Torà avvenissero solo in presenza di un numero minimo di dieci uomini, stabilisce implicitamente la necessità di un locale di riunione a questo scopo. La codificazione progressiva delle regole sulla preghiera, sui suoi orari, sui testi, conferì progressivamente centralità alla sinagoga. Le principali norme sono esposte nel codice di Maimonide, Mishnè Torà (Tefillà 11) e in Shulchàn ‘Arùkh, Orach Chayim 151.
Le regole iniziali sulla struttura architettonica prescrivono che l’edificio dove ci si riunisce sia il più alto della città. Si richiede che l’accesso non sia diretto dalla strada, ma che si passi attraverso un atrio. La pianta interna deve consentire l’orientamento dei fedeli nella preghiera: in qualsiasi parte del mondo verso la terra d’Israele; in terra d’Israele verso Gerusalemme; a Gerusalemme verso il luogo del Tempio, dove sorgeva l’edificio più sacro, l’Hekhàl, il “Palazzo”. La seduta dei fedeli non è prescritta precisamente nei testi classici, ma da fonti soprattutto archeologiche si rileva che fossero collocati in due gruppi di file degradanti con pavimento al livello più basso, per cui dell’inviato del pubblico che guidava la funzione si diceva che “scendeva” verso la tevà; quest’ultima era una cassa lignea sulla quale si appoggiavano i rotoli pergamenacei contenenti le scritture sacre. Si parla anche di una bimà, una tribuna, come in greco βῆμα, dove si guida la preghiera, predicano i maestri, parlano i rappresentanti della comunità. Un altro elemento importante è l’armadio (aròn) in cui si collocano i testi sacri da leggere. Per i rabbini e le persone importanti erano previste collocazioni particolari, in modo che potessero essere visti da tutti e a loro volta potessero vedere gli altri. In alcune sinagoghe, per motivi di sicurezza e di protezione da furti e dissacrazioni, l’armadio non c’era e i rotoli venivano trasportati da luoghi più sicuri nel momento della necessità. Più comunemente l’armadio c’era, di varie fogge (è un tema rappresentato molto di frequente negli affreschi catacombali), generalmente ligneo con supporto murario, come una nicchia. Diventava così il punto più sacro della struttura, generalmente collocato nel polo verso il quale si volgevano i fedeli nella preghiera quando si alzavano rivolti a Gerusalemme e al Tempio. Nella progressiva organizzazione della materia, le sinagoghe tradizionali svilupparono una pianta bipolare: a un estremo l’aròn, e poi la tribuna per la lettura della Torà, disposta al centro, o al polo opposto (in molte Sinagoghe italiane). Solo in epoca emancipatoria, per imitazione dei modelli cristiani, si sviluppò un modello monopolare con aròn e tribuna adiacenti. Nel rispetto della tradizione, le diverse comunità hanno elaborato modelli strutturali differenti; secondo gli ashkenazìm il cantore si colloca al lato dell’aròn (“presso la colonna”, di solito quella di destra) e la lettura della Torà avviene sulla tribuna; presso i sefarditi e gli italiani tutto si svolge sulla tribuna. Uomini e donne devono essere separati e in particolare gli uomini non dovrebbero guardare le donne, per cui la pianificazione di una sala sinagogale prevede un matroneo, che può essere sopraelevato, posteriore o al massimo laterale. In epoca più recente le sinagoghe riformate e conservative non rispettano la regola della divisione, mentre in alcune sinagoghe ortodosse lo spazio è diviso in due assi paralleli. Per la necessità di divisione, fa parte dell’architettura anche la struttura divisoria, la mechitzà, “separazione”, che deve essere di una certa altezza, solitamente intorno a 1,70, e può essere mobile o fissa.
Vi sono testimonianze antiche sul fatto che le sinagoghe erano collocate in periferia o fuori dalla cerchia urbana, e per garantire la sicurezza dei fedeli al rientro, soprattutto in ore serali, si introducevano dei brani “tampone” per allungare la liturgia, perché tutti potessero tornare insieme. I brani aggiunti sono rimasti, anche dopo che le sinagoghe hanno avuto diversa collocazione; nei vari contesti urbani queste ultime si trovavano là dove si concentrava la popolazione ebraica, volontariamente o in modo forzato, non proprio nel centro della città, ma al suo margine. Con la crescita della dimensione urbana, molti edifici risultano essere ora relativamente centrali, spesso a pochi passi dai luoghi simbolici, come la cattedrale o la sede dell’autorità civile.
Soprattutto per l’assenza di un edificio centrale di culto, come era il Tempio di Gerusalemme, il Beth-ha-Kenèset ha assunto un ruolo di sacralità; è un miqdàsh meàt, un santuario piccolo, minore, riprendendo l’espressione di Ezechiele 11:16 che in senso letterale si riferisce alla presenza divina nei luoghi della dispersione. Il Signore si trova nella sinagoga: “Cercate il Signore dove si fa trovare” (Isaia 55:6) e viene spiegato che si fa trovare nelle sinagoghe e nelle scuole. Si discute se la sacralità dell’ambiente derivi da una norma della Torà o dei Maestri o se sia semplicemente una doverosa espressione di rispetto; in ogni caso è sottolineata da regole precise: all’interno non ci si comporta con leggerezza, non si ride, non si scherza, non si parla di cose di poco conto; non vi si mangia e beve e non vi si dorme (regola che a seconda delle circostanze è stata applicata con una certa flessibilità); non ci si entra per ripararsi dal sole quando fa caldo, o dalla pioggia; non lo si usa come scorciatoia, quando ha due accessi, e chi vi entra deve comunque sostare un momento in raccoglimento, preghiera, o studio. Dentro la sinagoga non ci si bacia, perché l’unico amore che va manifestato è quello nei confronti del Signore, ma è consuetudine documentata il bacio tra famigliari all’uscita. Non si entra a capo scoperto, perché nella cultura ebraica la copertura del capo è segno di rispetto. Non si introducono animali né armi. Nelle sinagoghe europee si entra con le scarpe, in alcune sinagoghe di area islamica vigeva la regola di entrare scalzi. Scalzi erano i sacerdoti quando facevano servizio nel Santuario e tuttora si tolgono le scarpe quanto benedicono la comunità durante la preghiera.
L’illuminazione dell’ambiente ha un ruolo importante. Bisogna garantire che vi sia un numero adeguato di finestre, talora fissate a dodici. Le sinagoghe devono essere dotate di lampade, per l’uso serale e notturno e la donazione ai fini dell’illuminazione (anticamente si usava l’olio) è considerata un atto meritorio. Davanti all’aròn deve rimanere acceso in permanenza un lume, il ner tamid, spesso sospeso in alto con un lampadario elegante, in ricordo della menorà, il candelabro a sette bracci che ardeva nel Tempio di Gerusalemme. Solo nella notte del 9 di Av, che ricorda la distruzione dei due Templi, la lampada rimane spenta.
Una complessa normativa disciplina la possibilità di alienazione e destinazione ad altro uso dei locali di una sinagoga. Non si può demolire una sinagoga se prima non ne è stata costruita un’altra sostitutiva. La sacralità dei locali è relativamente inferiore a quella dei suoi arredi, ma in ogni caso una decisione di alienazione deve essere presa dall’intera assemblea comunitaria e il ricavato va destinato all’acquisto di beni di pari o superiore sacralità. La regola è più rigorosa per le sinagoghe delle città, rispetto a quelle di paesi periferici, essendo utilizzate da un pubblico variegato e non soltanto locale. Se non alienata, una sinagoga, benché distrutta, mantiene la sua sacralità. Si è voluta riscontrare la conferma a questo principio nel versetto che recita: “E renderò desolati i vostri Santuari” (Lev. 26:31), che viene interpretato nel senso che, anche se distrutti, rimangono pur sempre Santuari. Per questo permangono gli stessi divieti in vigore quando la sinagoga era in funzione, con l’aggiunta di quello di usare le mura diroccate per scopi profani (come stenderci reti, essiccare la frutta); non c’è però obbligo di curarne continuamente la pulizia e vi si lascia crescere la vegetazione, affinché la vista del luogo desolato susciti tristezza e desiderio di ricostruire. Vedendo una sinagoga distrutta si recita la benedizione in uso per eventi luttuosi: “Benedetto sia il Giudice di verità”( Mishnà Berakhot 9:2); vedendola invece ricostruita la formula è: “Benedetto Colui che restaura il territorio della vedova” (Prov. 15:25).

Rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma