Briciole di Memoria

In un recente numero della rivista “Shabbaton”, Avinoam Hersh, educatore, documenta così la sua recente esperienza in occasione del 27 gennaio. Siamo in Israele, in una “sesta classe” (parallela alla prima media italiana), alla quale aveva chiesto in tutta onestà di dire quanto fossero interessati ai racconti della Shoah: “Maestro, in tutta sincerità, non mi dicono niente. So che ciò è avvenuto, ma cosa mi lega alla Shoah? Sono nato in questo paese [Israele] e tutta quella realtà la percepisco come un capitolo di Harry Potter”.
L’ammissione placida del bambino è la riprova che l’inevitabile sta avvenendo, non per mano di qualche volontà malvagia o negazionista, ma proprio perché appunto inevitabile. È tempo di fare i conti con questa realtà. Mentre è doveroso, nei confronti dei sopravvissuti e per noi stessi, recuperare testimonianze, ascoltare, ascoltare ancora, far sì che i giovani ascoltino un racconto davvero vissuto finché sarà possibile, è altrettanto doveroso preparare ciò che nei termini della Halakhà si esprime come passaggio da un lutto fresco a un lutto vecchio, da una avelùt chadashà a una avelùt yeshanà. La memoria non potrà più essere personale e anche l’aspetto famigliare verrà meno rapidamente. Potrà rimanere solo una memoria collettiva, condivisa. Una tale memoria collettiva ha bisogno di una sua ritualità e di valori ben fissati. Benché lo spunto venga dal 27 gennaio, mi riferisco qui alla ricorrenza del calendario ebraico, che sembra ormai essere definitivamente stabilita in Yom haShoah. Sul primo aspetto, quello della ritualità, c’è qualcosa: l’accensione delle candele, la sirena, alcune aggiunte nelle tefillot. Forse abbastanza, occorrerà deliberarlo. È interessante notare come lo schema di ratifica di usi che inizialmente non sono stati sanciti da un ente religioso, come candele e sirena appunto, ricalchi il modello della Meghillà di Ester. Allora fu il popolo ebraico che iniziò a celebrare Purim come giorno di festa e di gioia, di banchetto e di scambio di doni, e fu Mordekhài – diciamo pure l’autorità rabbinica del tempo – a ratificare l’uso (con la fondamentale aggiunta dei doni ai poveri, dunque non un semplice beneplacito! Cfr. Estèr cap. 9, versi 19 e 22). Sul secondo aspetto occorre lavorare di più. Sarebbe estremamente riduttivo sostenere che l’elemento della fame esaurisca la Shoah. Tuttavia, ne è certamente stato un aspetto costante e tremendo. Nell’episodio citato all’inizio, l’anziano sopravvissuto che era venuto a parlare alla classe ha notato a un certo punto una fetta di pane per terra. Il suo scatto, il suo sforzo per tirarla su, hanno improvvisamente reso immediata agli occhi di quella classe una storia altrimenti lontana. E sarebbe allora auspicabile che il non sprecare cibo divenisse non soltanto un insegnamento morale ma anche halakhà codificata. Cosa che in effetti costituirebbe il recupero di una halakhà esistente! Infatti, lo Shulkhàn ‘Arukh sulla base di una fonte talmudica sancisce che “si lascia un piccolo avanzo nel piatto…che costituisce il cibo del cameriere” (Orach Chayim 170:3). Siccome la regola è ormai da secoli ritenuta palesemente inapplicabile alla lettera, alcuni commentatori hanno cercato di conservare l’uso di lasciare qualcosa nel piatto come espressione di autocontrollo. Ma oggi abbiamo la possibilità, e io credo il dovere, di lasciare del cibo non più nel piatto ma a parte. Forse non nel pasto quotidiano, dove la regola dovrebbe essere di non sprecare nulla, ma in quello festivo e tanto più in occasione di ricevimenti. Va crescendo il ricorso ad associazioni di beneficienza per ritirare il cibo non usato in occasioni gioiose. Occorre che questo diventi norma a tutti gli effetti, e che aumenti l’ambito di applicazione. Lo stesso ovviamente per ristoranti, catering, ecc. (dovrebbe essere parte dell’attestato di kashrut).
Infine, anzi prima di tutto, è imperativo che in Israele finisca la situazione che vede un terzo dei sopravvissuti ancora in vita sotto la soglia di povertà. Non ha senso commuoversi alle loro lacrime una volta l’anno se nel resto dei giorni stentano a campare. Una legge per portarli al di sopra di questa ignominia costerebbe assai meno di quanto si pensa. Ed è disperatamente urgente.

Rav Michael Ascoli