Da Gerusalemme a Kigali,
il ciclismo che cura le ferite

Nato in sordina, con buona volontà ma senza troppe pretese, il Tour del Rwanda si è subito imposto come una delle manifestazioni di maggior successo del continente africano. La terza edizione, quella del 1990, è ricordata come un particolare “successo” sotto vari punti di vista: un ultimo lampo di normalità, nel segno dello sport, mentre la catastrofe incombente della guerra civile e di un genocidio tra i più orrendi della storia umana si avvicinavano.
Dopo dieci anni di interruzione, nel 2001 si è tornati a correre. E di edizione in edizione la qualità è tornata a salire, così come l’attenzione mediatica su quella che – per gli oltre 13 milioni di abitanti del Paese, gran parte dei quali abituati a spostarsi in bicicletta – non potrà mai essere soltanto un’occasione di svago. Oggi il ciclismo è lo sport nazionale ed è un percorso di crescita che si è intrecciato a più riprese con l’elaborazione di quel dramma.
Tra i suoi protagonisti passati e presenti molti in quei mesi di atrocità senza freno hanno perso – assassinati in modo orribile, spesso sotto i loro occhi – madri e padri, nonni e fratelli, compagni di scuola e d’asilo. “Kwibuka”, si legge lungo le strade e i sentieri che il Tour del Rwanda attraversa annualmente. Un monito non dissimile dall’ebraico “Zakhor”. Ricorda: ora e per sempre, di generazione in generazione.
Una nuova edizione del Tour è al via. E anche quest’anno, alla partenza, ci sarà la Israel Premier Tech. Per la squadra israeliana, che in primavera sarà anche al Giro d’Italia, si tratta di un’abitudine consolidata. Un punto ormai fermo del proprio calendario, nel segno anche di quella ferita inevitabilmente aperta. E soprattutto nella consapevolezza che lo sport possa costituire un simbolo e volano di speranza. “Entrambi i nostri popoli hanno subito un genocidio. Questa è una gara molto importante per noi. È anche un messaggio: ci ricorda che lo sport può e deve fare molto di più”, le parole affidate al documentario Racing for Change del 2021 in cui, in scene anche commoventi, si mostrano alcuni momenti di questa speciale sintonia.
Scorrono le immagini, in queste ore, dei primi allenamenti. Uno in particolare ha un significato che va oltre fatica e muscoli tirati: si accompagna infatti all’inaugurazione del “Field of dreams”, centro di formazione all’avanguardia che potrà servire i giovani ciclisti (o aspiranti tali) del distretto di Bugesera. Una struttura d’eccellenza nata grazie a un investimento del team, sempre molto attento al sociale, e al contributo di tanti donatori sia israeliani che internazionali.
Un gioiello che va ad incastonarsi in una tela di progetti fitta che include anche il patrocinio alla prima squadra tutta al femminile del Rwanda, nata anch’essa su iniziativa israeliana: un ulteriore ponte verso il grande appuntamento che attende il Paese nel 2025, con l’organizzazione dei Mondiali di ciclismo. I primi a svolgersi in Africa, con molte attese e comprensibile entusiasmo tra gli appassionati locali.
Chi in Africa c’è nato è Chris Froome, passaporto britannico ma origini kenyote. Il quattro volte vincitore del Tour de France inizierà dal Rwanda la sua terza stagione con la maglia della Israel Premier Tech. Sulle ambizioni di corsa non si è sbilanciato più di un tanto. Ma, appena sbarcato a Kigali, non ha mancato comunque di sottolineare l’importanza del progetto “dal basso” che vede impegnato il team. È così, ha fatto notare, che si lavora davvero “per il cambiamento”.