Un inverno che proseguirà

Come già era avvenuto nella crisi petrolifera del 1973 (la guerra del Kippur) e del 1979 (la rivoluzione in Iran), nel 2022 l’energia è tornata a diventare un’arma di guerra. Ce ne siamo accorti ben presto in Europa e, quindi, in Italia, dopo il caracollare della crisi russo-ucraina (che peraltro lievitava da almeno un decennio). A fronte, invece, dello stolto convincimento che il mercato globale dell’energia avrebbe mantenuto una sua sostanziale prevedibilità, nei prezzi così come nelle erogazioni. La Russia di Putin, non a caso, fa leva sulla necessità di approvvigionamento di diversi Paesi europei – a partire da Germania e Italia –, nonché sulla difficoltà di riassettare le forniture nel breve periodo e, quindi, sulla rigidità della domanda energetica, fattori che rendono difficile ridurre nel breve termine i consumi. Mosca, che in realtà è assai più fragile di quanto non appaia, si atteggia sullo scenario internazionale come una sorta di “petrol-stato”, che dispone di armi potenti per il fatto stesso di controllare i flussi energetici. Al netto di smargiassate e di atteggiamenti criminali (le due cose si tengono comunque assieme, nel regime putiniano e non solo in esso), l’Italia pagherà per il solo anno trascorso 136 miliardi di cosiddetti “extra-costi” energetici (la fonte è Banca Intesa), ossia per l’eccedenza non preventivata di oneri derivanti dal caro energia. Qualcosa che è pari all’8,7% dell’intero Prodotto interno lordo. La ricaduta sulle imprese nostrane, per il Cento studi di Confindustria, è di almeno 43 miliari per anno. Nel suo complesso, la crisi energetica (della quale ci accorgiamo perlopiù quando riceviamo la bolletta, trasformatasi per molte famiglie in un salasso), è anche strettamente interconnessa allo stallo generato dalla pandemia del Covid 19. Così come la vicenda dell’Opec, e del balzo dei prezzi del carburante nel 1973, dopo la guerra del Yom Kippur, costituiva il risultato non tanto di quest’ultima, e delle scelte che ad esse si erano accompagnate da parte dei paesi arabi, quanto del crollo, nel 1971, del sistema dei cambi stabilito quasi trent’anni prima con gli accordi di Bretton Woods. Il Sars Cov2, «oltre a creare una fortissima recessione e una difficoltà dei bilanci pubblici, ha messo in crisi le catene del valore internazionali e gli approvvigionamenti». In altre parole, ha inceppato quel processo di generazione della ricchezza che conosciamo con il nome di «globalizzazione».
Se cinquant’anni fa l’Opec, costituendosi come organismo politico internazionale, quadruplicò il prezzo del petrolio (e quindi della benzina), ricattando così l’Occidente, oggi è la Russia di Putin, e quanti gli ruotano intorno, a comportarsi in tale modo, generando non solo – e non tanto – un’impennata dei prezzi alla fonte ma anche una loro persistente volatilità. Gli effetti che al momento ne sono derivati rimangono essenzialmente due: il trasferimento del costo dei trasporti al prezzo finale dei beni di consumo; la persistenza di un tasso d’inflazione quale non si vedeva da almeno una quarantina d’anni. Rimane una divaricazione di fatto: ciò che stiamo vivendo non è tanto una crisi planetaria, come tale destinata a colpire tutti, indistintamente, quanto la manifestazione di una dipendenza europea dai rifornimenti dell’Est. Si tratta, a ben vedere, di un’enorme differenza rispetto alla crisi determinata dall’Opec, che colpì invece entrambe le sponde dell’Atlantico. Oggi gli Stati Uniti non lamentano problemi di autosufficienza energetica mentre la guerra russo-ucraina rappresenta un volano per le loro esportazioni militari. Per molti paesi europei, invece, lo schema della dipendenza dal petrolio arabo di tanti anni fa si è riprodotto nell’attuale sudditanza energetica dall’Est. Per capirci: mentre il prezzo del gas è aumentato di ben venti volte nell’Unione europea, negli Stati Uniti è incrementato di sole tre volte. In tutto ciò, va da sé, entrano in gioco molti fattori, non da ultimo – al netto delle risorse naturali disponibili e delle politiche pregresse di stoccaggio – anche le tecniche e le logistiche di trasporto dei gasdotti e delle comunicazioni marittime. Più in generale, a fronte del fatto che il prezzo delle fonti energetiche si forma su mercati speculativi, a partire da quello olandese, rimane il riscontro che anche in questo caso l’Unione ha perso l’occasione di concertare una risposta condivisa. Da una tale crisi comune, o ne uscirà maggiormente concorde oppure proseguirà nei processi di sgretolamento delle politiche comunitarie. Posto che gli Usa, non importa se di Biden o di Trump, hanno molto da guadagnare da una sua involuzione. La politica restrittiva del credito attuata dalla Banca centrale europea (laddove l’inflazione continentale è da costi e non da domanda, come invece nel caso americano), rischia quindi di generare una generalizzata recessione economica. Con immediati effetti sulle famiglie e sulla loro capacità di acquisto, che in Italia già da tempo è stata abbondantemente ridimensionata. La moneta unica europea, inoltre, impedisce le compensazioni esercitata dalle vecchie divise nazionali attraverso la loro svalutazione competitiva e la scelta di giocare dell’export. Con l’aggravante, intervenuta in questi ultimi decenni, di un debito pubblico che pesa come un macigno rispetto a tutte le mosse a venire. È impossibile, allo stato attuale delle cose, ipotizzare quali possano essere le risposte di lungo periodo ad una tale configurazione. Ammesso che ne esistano ancora. La Commissione europea sta per disporre nuove regole per il «patto di stabilità» (i criteri nel rapporto tra debito strutturale, deficit annuale e prospettive di investimento pubblico), solo temporaneamente sospese, tra l’incudine dell’insostenibilità di ulteriori sforamenti di bilancio e richieste di sostegno da parte delle società nazionali. Di certo, l’inflazione galoppante pesa molto di più sui ceti deboli, posto che intacca una quota maggiormente rilevante dei loro redditi. Ma la divaricazione della forbice delle diseguaglianze è destinata senz’altro ad esacerbare le tensioni sociali. In Italia, nel Medio Oriente come anche, a conti fatti, in Israele.

Claudio Vercelli, Pagine Ebraiche