Segnalibro – Emilio Jona, tra identità e alterità

Raccoglie una selezione di oltre trent’anni di interventi per HaKeillah, glorioso organo di informazione del Gruppo di Studi Ebraici di Torino, il volume “Essere altrove. Scritti sull’ebraismo” (ed. Neri Pozza) di Emilio Jona. Ad affrescarlo una straordinaria ricchezza di temi e spunti che sono anche un’occasione per l’autore – nato a Biella nel 1927 e ancora protagonista a pieno titolo del dibattito culturale – per ripercorrere senso e passioni di una vita. “Ho scritto queste pagine nel mio studio, nel cuore della vecchia Torino, in una casa accogliente, dal volto neoclassico, circondato dagli scaffali della biblioteca che raccoglie le mie scelte di lettura dal 1945 a oggi, tra i mobili che si sono salvati nella nostra casa di Biella Piazzo dall’occupazione e dallo scempio che ne fecero i due ufficiali nazisti che l’abitarono”, racconta al lettore prima di affidargli il sunto di tre decenni di collaborazione con Hakeillah.
Grande esperto tra l’altro di musica popolare, ma anche avvocato e poeta, narratore e commediografo, Jona è personalità versatile e affascinante. Con un’identità poliedrica che gli fa dire di essere “un ebreo laico, diasporico, ateo o meglio religiosamente agnostico”, ma comunque consapevole “del margine di mistero che ci circonda” e a cui l’ebraismo interessa “per le sue multiformi realtà, le ragioni dell’odio che lo ha circondato e lo circonda, il suo fondarsi sulle reti della memoria, il suo rapporto tra memoria e storia, tra il particolare e l’universale, il dubbio metodico che lo accompagna, il suo privilegiare la domanda rispetto alla risposta”. E ancora, tra i vari aspetti sui quali si sofferma, “l’essere un pensiero del due anziché dell’uno, per il rapporto che esso realizza con il testo di ispirazione sacra e le stratificazioni delle sue interpretazioni”.
Interessi che per sua ammissione non l’hanno portato “al centro del pensiero ebraico o a una vita ebraica”, bensì “nelle sue periferie, in un ebraismo di margine e di complemento”. A scaturirne, da questa prospettiva, una narrazione critica di testi altrui “piuttosto che una mia visione dell’ebraismo, che è percepibile solo nelle pieghe del mio discorso”. Un’impalcatura eterogenea sorregge le stimolanti pagine di quest’opera. “Talvolta – spiega Jona – ciò di cui mi occupo proviene da libri importanti, talvolta invece da libri marginali, ma si tratta sempre di un particolare che comunica in qualche modo con l’universale”. E di un pensiero che in genere “non è univoco”, ma doppio o interrogativo. Un pensiero, sottolinea, “che assimila il pensiero altrui senza mai esserne assimilato”.
Di otto sezioni si compone “Essere altrove”. La prima riguarda più strettamente il tema dell’identità. Nella seconda sotto indagine ci sono invece antigiudaismo e antisemitismo, con uno spazio di riflessione dedicato alle “coordinate del pregiudizio” e alle responsabilità storiche della Chiesa nella costruzione di un certo immaginario.
Shoah e rapporto con la Memoria, dialogo ebraico-tedesco, il futuro dello Stato d’Israele, la questione palestinese: di questo e di molto altro si è occupato Jona nei suoi trent’anni di collaborazione con Hakeillah, la cui sede – affresca all’inizio del viaggio – “è l’Argonopoli leviana, cioè quella Torino ebraica un tempo fisicamente visibile che si estendeva dentro un piccolo quadrilatero di strade sfocianti su piazza Carlina”. La voce, sostiene, “piú libera e anticonformista dell’ebraismo italiano dove si sono dibattuti (e si dibattono) non solo i temi comunitari, ma anche quelli relativi alla realtà e all’identità ebraica, all’antisemitismo, al sionismo, alla Shoah, e alle battaglie per la democrazia, l’antifascismo e la laicità dello stato”. La raccolta di saggi si apre con un’appassionata difesa dell’ebraismo diasporico in risposta ad alcune considerazioni critiche formulate dallo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua, che iniziava allora ad avere un certo seguito anche in Italia. Yehoshua, citando nel merito la Shoah, parlava di esperienza fallimentare e senza futuro.
È l’aprile del 1992 quando Jona, stizzito da quel pensiero, scrive: “L’ebreo israeliano non esisterebbe senza l’ebreo diasporico, che ne è la sua parte nascosta e in questo caso anche incompresa e negata”. Essa, proseguiva, “è il suo passato, la sua memoria, la sua coscienza critica, il suo referente, e, lo si voglia o no, anche parte del suo presente”.
Un dialogo possibile?
Sono usciti recentemente in Francia due libri di forte attualità: Lettre à un ami juif (Ibrahim Souss, Flammarion, Paris 1988) e la risposta a essa, Lettre d’un ami israélien à l’ami palestinien (Élie Barnavi, Flammarion, Paris 1988). Souss è il rappresentante ufficiale dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) in Francia, Barnavi è uno storico e politologo, professore all’università di Tel Aviv.
La loro attualità è data dal confronto e dal dibattito serrato su alcuni temi chiave del conflitto mediorientale e dal segno che su di esso gettano le recenti prese di posizione dell’Olp, che i due libri precedono, ma di cui recano alcune premesse e precisi sentori.
Il libro di Souss inizia con una sorta di dichiarazione rituale. È ovvio che per parlare al proprio nemico bisogna anzitutto garantirsi le spalle, porre dei distinguo, delle premesse cautelative e dare assicurazione di buona condotta rivoluzionaria. C’è quindi per cominciare un’epigrafe ben trovata: «Se essi si tacciono, le pietre grideranno» (Luca 19, 40); quindi una seconda tratta da René Char, poeta francese della Resistenza, sull’andare avanti e fare fronte al dolore inferto dal carnefice hitleriano; poi un passo di Camus, tratto da Lettres à un ami allemand: «Nessuna vittoria paga quando le mutilazioni dell’uomo sono senza ritorno», e infine, sempre a
documentazione della non innocenza della parola, l’affermazione che nella guerra del 1967 Israele non cercava la sicurezza delle sue popolazioni, ma il Lebensraum, lo spazio vitale di sinistra memoria.
Va detto, anzitutto, che in realtà non è Barnavi l’interlocutore di Souss, ma un ebreo, non israeliano, neppure troppo intelligente e con una punta di fanatismo.
Ma così è, si tratta di percorsi in una certa misura obbligati di una certa pubblicistica palestinese, cui se ne oppone, per altro, una israeliana altrettanto preconcetta o mitologica. Barnavi non sente questi doveri e ha il vantaggio di parlare non a un personaggio di comodo, ma a una persona reale.
Tuttavia Souss, sceltosi il proprio ebreo diasporico come interlocutore, operati i debiti rituali, è ora in grado di dialogare e di parlare, egli dice, «il linguaggio del cuore» e del reciproco rispetto a cui Barnavi dichiara di voler opporre un altro linguaggio, quello della ragione e della politica.
Per esempio, Barnavi si chiede che cosa sia per Souss il sionismo. Souss non lo dice esplicitamente, ma è chiaro che per lui è un movimento di rapina, consapevolmente realizzata, votato alla spoliazione delle popolazioni autoctone.
C’è nelle strutture mentali e affettive di ogni militante nazionalista una incapacità di fondo a comprendere il nazionalismo dell’altro – dice Barnavi – figuriamoci poi quando quell’altro è il nemico. Ora, che per i palestinesi
gli ebrei siano degli intrusi è fuor di dubbio, ed è difficile che essi possano riconoscere l’antica sete di Sion del popolo ebraico, i suoi tormenti di popolo paria, la sua volontà di emancipazione. Si potrebbe tuttavia pretendere quanto meno un riconoscimento delle origini storiche del sionismo, che si situa nell’idea ottocentesca dello Stato nazionale e nell’aria vivificante, che si respirava in quel secolo, sotto l’occhio benevolo della Scienza e del Progresso, insieme alla persistenza di un multiforme antisemitismo di destra e di sinistra, plebeo e borghese, culturale e sociale.
(Febbraio 1989)
Giacomo Debenedetti
Mi raccontava qualche tempo fa Renata Orengo, moglie di Giacomo Debenedetti (Biella 1901-Roma 1967), uno dei più grandi, se non il più grande critico letterario italiano del Novecento, che alla vigilia della sua morte Giacomino, così era comunemente chiamato non solo dagli amici, aveva espresso con più determinazione la volontà di realizzare due vecchi desideri: quello di andare in Israele e quello di rivedere Biella, il luogo dove era nato e vissuto sino a 13 anni. La morte lo sorprese che aveva già acquistato il biglietto aereo per Tel Aviv; come se l’imminenza avvertita della prossima fine lo riconducesse alle origini, quelle topografiche più prossime e quelle più remote e profonde della sua ebraicità, una ebraicità all’apparenza marginale, ma pur sempre affermata e accettata.
Il che ripropone ancora una volta il problema di che cosa significhi essere/sentirsi ebrei nonostante la mancata frequentazione del tempio e il mancato rispetto delle regole formali della legge mosaica.
Mi è tornato alla mente quel ricordo leggendo il libro Giacomino che Antonio, il figlio, ha dedicato al padre e che è in libreria in questi giorni (Rizzoli, Milano 1999). È un libro di aneddotica, con tanti volti e personaggi amici, molti ebrei o mezzi ebrei. I mezzi ebrei per altro, dice l’autore, citando Saba, sono ebrei due volte perché si vedono essere ebrei anche con gli occhi della loro metà ariana.
Ma oltre che di aneddoti e di curiosità è un libro di affetti dolenti, di reticenze, di rancori antichi e di rimpianti perché è cosa difficile scrivere del proprio padre specie se così importante e ingombrante, anche nelle sue apparenti latitanze e nella sua realtà di dispotico, nevrotico e venerato genitore.
Ora possiamo, con l’aiuto di questo figlio, guardare qualche aspetto dell’ebraicità di Debenedetti. Egli li vede, anzitutto, con gli occhi della madre, in quella sorta di miscela di pessimismo ebraico, nei mattini dei suoi difficili risvegli, intesa come un qualcosa dove si ritrovano mischiati Proust, la psicoanalisi e forse anche la circoncisione.
Ma come per molti ebrei, si ricordi Améry, l’impatto con le leggi razziali gli butterà in faccia la sua diversità, e quella che un tempo era un dato inavvertito o marginale diventa a un tratto tangibile ed essenziale. E la sua reazione è di disdegno e superbia: «una corazza di apparente superbia e eccentricità lo difende» dice il figlio «dalla pena di dover nascondere il proprio nome in calce a quegli scritti che sono la ragione prima, se non unica del suo esistere».
(Dicembre 1999)
Sionismo politico, sionismo culturale
Rileggere Der Judenstaat di Theodor Herzl (1896) è un buon esercizio e un buon inizio per riflettere sui temi che ancora ora andiamo dibattendo sull’identità ebraica, sul rapporto tra Israele e la diaspora, sull’intreccio tra politica-società e religione, sulla realtà e attualità del movimento sionista.
Lo ripubblica David Bidussa curando una scelta di saggi, col titolo Il sionismo politico (Unicopli, Milano 1993) e premettendovi un ampio saggio introduttivo. Quando Herzl proponeva di costituire lo Stato degli ebrei dichiarava di essere spinto da una necessità universale, da una forza motrice esistente nella realtà: la miseria ebraica. La miseria ebraica era un anacronismo nel regno della tecnica e della cultura illuministica, ma l’antisemitismo era più forte dei lumi e del progresso, esplicito o mascherato che fosse, esso stava dietro ogni classe sociale; l’odio religioso ne era stata la matrice, ma ora la sua molla stava nelle conseguenze dell’emancipazione, nella parità dei diritti che non potevano più essere negati, così la persecuzione dilagava mentre gli ebrei si assimilavano, oppure restavano un popolo, cioè un gruppo storico di membri di una sola famiglia; e questo faceva di loro, come per il passato, un nemico. Non restava dunque all’ebreo che scoprire la propria forza, che era quella di costituirsi in Stato. Il piano, diceva Herzl, è «straordinariamente semplice»: «ci si dia la sovranità di un pezzo della superficie terrestre che basti per i giusti bisogni del nostro popolo e di tutto il resto ci occuperemo noi stessi».
L’antisemitismo moderno per Herzl non distruggeva ma fortificava il gruppo ebraico, facendo cadere nell’assimilazione gli ebrei marginali ed emancipati e restituendo più agguerrito il nucleo più numeroso e forte dell’ebraismo, quello dell’Est europeo. Bidussa fa giustamente notare che nel progetto di Herzl il problema sono gli ebrei in carne e ossa, mentre manca una qualsiasi concezione fondante di carattere teologico o culturale dell’ebraismo. Der Judenstaat è un testo «arido», apparentemente privo di spessore culturale, ma forse la sua massima semplificazione è stata la sua grande forza comunicativa, che ne ha fatto il testo fondante del sionismo.
(Giugno 1993)