Una solida unità interna

Abbiamo da poco concluso la lettura delle Parashot del libro di Shemot con la vicenda della costruzione del Mishkan (Tabernacolo) nel deserto. La Torah ci fornisce in proposito un duplice resoconto, che potremmo definire rispettivamente preventivo e consuntivo, con alcune differenze. All’inizio della Parashat Terumah l’invito a contribuire alla costruzione era rivolto a tutti, ebrei e non ebrei, comprendendo anche il ‘erev rav, la “gran moltitudine” che agli ebrei si era unita nell’esodo dall’Egitto. All’inizio della Parashat Wayaqhel, invece, l’invito sarà ristretto: “Prendete tra Voi un’offerta per H.” (Shemot 35, 5). Cos’era mutato nel frattempo?
Il ‘erev rav aveva indotto gli ebrei a cadere nella trasgressione del Vitello d’Oro. Da qui il contrordine di Moshe che limitava ai Figli d’Israel l’invito a contribuire per la costruzione del Mishkan. Anche gli altri popoli – spiega il Talelè Chayim – erano inizialmente stati chiamati all’alto compito del tiqqun ‘olam, ma questo ruolo si rivelò mascherato da “scorze” che ne avrebbero reso l’esecuzione improbabile. E persino rischiosa: il pericolo è che l’uomo precipiti in basso, nell’oscurità. Solo i “giusti perfetti” avrebbero potuto affrontare vittoriosamente le “scorze”. Ma di fatto accadde che invece di essere la luce d’Israel a elevare la materialità, fu la materialità a trascinare in basso Israel. Si rese allora necessario separarsi dalle nazioni, almeno fino alla fine dei tempi in cui ritroveremo la forza spirituale di esercitare un’influenza positiva anche sulla materialità più lontana. Lungi dall’essere un Mishkan di “giusti perfetti”, fu invece realizzato un Mishkan di Ba’alè Teshuvah, che non hanno più la forza di elevare questo mondo e pertanto devono separarsene.
Nel secolo scorso Rav Kook, primo Rabbino Capo di Eretz Israel, ampliò ulteriormente il discorso. “Non fosse stato per il peccato del Vitello d’Oro – scrisse – gli abitanti originari della Terra d’Israel si sarebbero conciliati con i Figli d’Israel, perché il Nome di H. con cui questi sono chiamati avrebbe suscitato timore reverenziale. Non sarebbe stata necessaria alcuna guerra e la loro influenza si sarebbe imposta facilmente come è previsto per l’età messianica. Ma intervenne la trasgressione e si dovette procrastinare di migliaia d’anni” (Orot, ha-Milchamah, 4). La fonte di Rav Kook è nel Midrash: “Se i Figli d’Israel avessero atteso Moshe invece di compiere quella certa trasgressione (il Vitello d’Oro), non sarebbero stati in potere dell’esilio” (Shemot Rabbà 32, 1).
A scompaginare almeno apparentemente le carte giunse nel frattempo R. ‘Ovadyah Sforno. Iniziando il commento al libro di Bemidbar egli afferma che il censimento dei Figli d’Israel nel deserto aveva la funzione di “riordinarli nella prospettiva che sarebbero entrati in Eretz Israel immediatamente, ciascuno accanto al proprio vessillo, senza guerra… Ma per via del guasto provocato dagli Esploratori i Sette Popoli seguitarono invece a far loro del male per quarant’anni e si rese necessario distruggerli”. Che cosa autorizza il grande esegeta italiano del Cinquecento ad esprimere un’idea diversa? Fu il peccato del Vitello d’Oro (chet ha-’eghel) o quello degli Esploratori (chet ha-meragghelim) la vera causa dei nostri mali?
È Sforno stesso a suggerirci la soluzione. Dopo il peccato del Vitello il S.B. aveva espresso il proposito di distruggere il popolo ebraico, ma Moshe riuscì a fermarlo. Solo per il momento, però. D. gli disse: “Ora va’ pure e guida il popolo al luogo che ti ho detto, ma quando li punirò (per eventuali colpe future), li punirò anche per (questa) loro trasgressione” (Shemot 32, 34). Sforno spiega la cosa nel senso moderno della condizionale: “Allorché torneranno a peccare, come con gli Esploratori, li punirò anche per il Vitello e non seguiterò a condonarli. Una volta che saranno ricaduti nella loro stoltezza, si presumerà che continueranno a farlo, come dicono i Maestri: ‘dal momento che la persona trasgredisce una seconda volta, considererà la cosa permessa’ (Yomà 86a)”.
Anche Sforno, in definitiva, concorda nel far risalire la ribellione del popolo ebraico al Vitello d’Oro, solo che D. concesse loro una sospensione della pena finché fossero ricaduti un’altra volta nella trasgressione e ciò si verificò con gli Esploratori. È lecito domandarsi cosa sarebbe accaduto se il popolo si fosse limitato a commettere la seconda trasgressione risparmiandosi la prima. Si possono solo fare delle ipotesi legate alla diversa natura dei due peccati. Se il rifiuto da parte nostra fosse stato solo per la terra, è facile immaginare che il S.B. non ci avrebbe risparmiato la guerra e la sofferenza per conquistarla, ma sarebbe stato un tipo di conflitto più leggero. A una trasgressione eminentemente “politica” D. avrebbe replicato addossandoci una guerra altrettanto “politica”. Ci sarebbero stati interessi in gioco, certamente, ma sarebbero stati gestibili: avremmo prima o poi trovato un accomodamento come in tutte le controversie di natura appunto politica. Avendo invece commesso anzitutto una trasgressione “religiosa”, la grave colpa di idolatria, anche la guerra che ci ha afflitto ha assunto il carattere di una guerra di religione. Un conflitto aspro e apparentemente senza soluzione per il fatto che i combattenti si fanno costantemente scudo delle rispettive convinzioni, cosa che impedisce un serio approccio diplomatico.
Come ci resta da affrontare la situazione? Mantenendo una solida unità interna. È l’unica arma per impedire che i nemici si approfittino delle nostre fratture per inasprire l’attacco. Se ci faremo trovare divisi perderemo certamente. Ricordiamo il discorso di Haman il malvagio? “C’è un popolo diviso e sparpagliato”. E avrebbero potuto essere dolori…

Rav Alberto Moshe Somekh