L’inquieto pensiero ebraico
di Rachel Bespaloff

La pubblicazione dell’opera omnia di Rachel Bespaloff (1895-1949), nata Pasmanik da famiglia ebraico-ucraina in Bulgaria, cresciuta a Ginevra, vissuta a Parigi e salpata nel ‘42 per New York scampando alla Shoah, è tra i più sorprendenti casi editoriali di questi anni. Il merito è dell’editrice Castelvecchi e della sua direttrice Cristina Guarnieri, che con una dotta équipe di collaboratori ha tradotto i testi noti e inediti di questa studiosa originale ma asistematica, che interagì a partire dagli anni Venti con il meglio della cultura europea, ebraica e non. Questo primo volume si intitola L’eternità nell’istante ed è curato dalla stessa Guarnieri e da Laura Sanò.
Se proprio dobbiamo collocare Bespaloff in qualche filone, andrebbe nella corrente dell’esistenzialismo ebraico il cui massimo esponente è quel Lev Issacovitch Šestov, nato a Kiev e a sua volta parigino d’elezione, che la giovane studiosa incontrò nel 1925 cambiandogli la vita: da musicista che era, già sposata, ‘scoprì’ la filosofia, o meglio quel pensiero dichiaratamente antifilosofico che ben incarnava le inquietudini esistenziali emerse nel periodo post-bellico. Nel circolo sestoviano incontra altri eminenti filosofi e critici del pensiero tra le due guerre: oltre a Edmund Husserl (senza il quale non avremmo Heidegger e Levinas), conosce Benjamin Fondane, Jacques Schiffrin, Daniel Halevy, Lucien Lévy-Bruhl, Jean Wahl (con il quale fugge dalla Francia per gli Stati Uniti), e ancora Gabriel Marcel e Karl Jaspers, il musicologo slavo Boris de Schlözer e i filosofi cattolici Maritain e Fessard. Insomma, una rete di intellettuali tra i quali Bespaloff è a suo agio, appassionandosi alla lettura di Nietzsche e Kierkegaard ma affrontando anche mostri sacri come lo stesso Heidegger, il cui genio ella individuò nella creatività poetica, nel suo nuovo linguaggio filosofico. 
Il volume fresco di stampa, primo di quattro programmati, contiene la sua raccolta di saggi Cammini e crocevia, apparsa in francese nel 1938 e dedicata a Šestov; gli appunti sui testi kierkegaardiani dell’amico Wahl, nonché gli studi sull’Iliade e su Heidegger. Illuminante lo scambio epistolare “sulla questione ebraica” che la Bespaloff ebbe con Daniel Halevy tra il ’37 e il ’38, che andrebbe analizzato in profondità: a dispetto del nome ereditato da un nonno, Halevy non era ebreo ma la Bespaloff intrattiene con lui una discussione sulla natura e sul destino del popolo ebraico incentrata sulla valutazione delle politiche antisemite nella Germania nazista, da un lato, e dall’altro sul tentativo di creare un ‘focolare nazionale ebraico’ in quella che allora si chiamava comunemente Palestina.
Bespaloff infatti era figlia di un medico al contempo teorico del sionismo, un tipico intellettuale della borghesia ucraino-bulgara (descritta ne La lingua salvata da Elias Canetti) e dal padre aveva appreso la distinzione fondamentale tra nazionalismo e coscienza nazionale: gli ebrei dovevano sì rivendicare tale coscienza e agire con una volontà nazionale ma rigettando le derive del nazionalismo, che ai suoi occhi era la vera piaga ideologica dell’Europa. Bespaloff è, da questo punto di vista, una vera pensatrice politica sulla scia di una Hannah Arendt e di una Agnes Heller più che nel solco mistico (con i rischi connessi) di una Simone Weil o di una Edith Stein, non a caso allieva di Husserl.
Per Bespaloff il sionismo è la grande speranza, il futuro; la Francia era ‘la seconda patria’, mentre la prima era… ‘ancora da costruire’ (chiara allusione all’ideale sionista) purché gli ebrei sapessero distinguere tra coscienza nazionale e nazionalismo. Come non accostare le sue annotazioni sulla Germania degli anni Trenta alle “riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo” di Levinas apparse sulla rivista Esprit nel ‘34? O le sue riflessioni sulla storia a Histoire et verité di Ricoeur? Lo spirito dell’ebraismo e i suoi problemi sono le lenti attraverso cui affronta ogni questione esistenzial-politica. Scrive: “Non dobbiamo rassegnarci né a servire dèi stranieri (come fanno i comunisti ebrei) né ad attendere passivamente e stupidamente i colpi del destino (come fanno gli ebrei assimilati). Ritroviamo la nostra verità…sebbene sia difficile”. Questi testi, per quanto complessi, sono una miniera di intuizioni, ricche di acume analitico e passione per la vita, una vita che la costrinse a un esilio negli States dove non riuscì a ritrovare la sua vena interiore, attanagliata come fu dalla nostalgia per la Francia, dalla malattia e la morte del marito e dall’infermità dell’anziana madre (unico sollievo la figlia Noemi). Finì in un buco nero che si chiuse con il di lei suicidio nel ’49. Della società nordamericana non accettava il conformismo e la superficialità, quasi fosse allergica al pensiero inquieto, il marchio europeo della sua personalità. Insisteva: “È sul non-conformismo, sulla voce interiore e sulla via nascosta che bisogna mettere l’accento”, sebbene questo nascondimento era divenuto per lei una prigione da cui evadeva solo attraverso la corrispondenza con gli amici francesi. Fece in tempo a vedere nel ’48 la nascita di Israele, che giudicò “la risposta a sei milioni di morti… Sottoponendosi alla prova della storia, assumendo il duro compito di popolare il deserto, il popolo ebraico compie un atto di coraggio. Credo che la posizione sempre minacciata che Israele occuperà tra Occidente e Oriente potrà trasformarsi in beneficio sia per sé che per i suoi vicini”. Visione profetica? Alla notizia della sua morte, di quella morte, il filosofo Marcel scrisse della Bespaloff: “Il tragico destino di Israele è risuonato fin troppo profondamente nella sua coscienza, lei che di tutte era la più consapevolmente ebrea”. A distanza di decenni i suoi scritti tornano a circolare, tradotti e studiati, e il suo nome può finalmente prendere il posto che merita nello spettro del pensiero ebraico, broadly understood, del Novecento.

Massimo Giuliani