“Yiddish, la lingua della Diaspora”

Troppo spesso relegato a ruolo folkloristico, bistrattato, sconfitto in una vera e propria guerra linguistica, lo yiddish merita di uscire dall’ombra. È una lingua non solo di grande fascino, ma anche di grande saggezza. È la voce di un mondo capace di varcare molti confini, di adattarsi e mantenere una sua identità nel corso dei secoli. È un modo di pensare e di essere controcultura. E lo spiega con grande abilità l’ultimo libro di Anna Linda Callow, La lingua senza frontiere. Fascino e avventure dello yiddish, pubblicato da Garzanti.
Una lingua che Callow ha incontrato un po’ per caso ai tempi dell’università, su spinta dell’amica di una vita, Claudia Rosenzweig (yiddishista dell’Università Bar Ilan). Dopo un’iniziale pregiudizio, si è fatta conquistare grazie anche ai Singer, agli Sholem Aleichem, ai Peretz. Docente di ebraico alla Statale di Milano e traduttrice, Callow, dopo aver raccontato l’impresa dell’ebraico con La lingua che visse due volte (Garzanti), ha deciso di ricostruire le origini e il destino dello yiddish in un libro che non è solo un racconto piacevole e interessante, ma è anche una testimonianza di affetto. Non a caso, come racconta a Pagine Ebraiche, parliamo di un vocabolario che fa parte della quotidianità. “Mi capita di pensare certe espressioni in yiddish. Lo faccio anche con l’ebraico e con l’inglese. Credo sia un fenomeno comune per chi traduce e ama diverse lingue. In yiddish uso ad esempio parole che mi sembrano insostituibili come bebeches, per dire tutte le proprie cianfrusaglie. Oppure detti e metafore che trovo originali, come quella con cui apro il libro e a cui sono molto legata: con una coda di porco non si può fare uno shtrayml (cappello di pelo indossato da molti ebrei haredi), che significa che non si può produrre qualcosa di pregevole da materiale inadeguati”. Per molti, lo yiddish era quel materiale inadeguato. Come spiega Callow, è esattamente il contrario.

Cosa rappresenta per lei lo yiddish?
Credo racchiuda in sé, più delle altre lingue, il concetto di Diaspora. Se pensiamo al giudeo-spagnolo, c’è la parte ebraica e la parte spagnola appunto. Mentre lo yiddish pesca veramente a strascico: c’è l’ebraico, l’antica parte romanza, l’elemento tedesco, quello slavo. Fino all’oggi in cui si sentono le influenze dell’inglese. Per cui è un po’ una summa della Diaspora ebraica, che raccoglie, assorbe, impara e non ci mette solo l’elemento ebraico o rituale. È molto più pervasivo. Questa mistura che avevo inizialmente visto come un difetto, così come avevano fatto altri in passato, invece è il suo grande punto di forza. La sua saggezza.

La loshn Ashkenaz. La lingua degli ashkenaziti. Nel libro si ricorda come il termine Ashkenaz abbia origine bibliche e richiami un popolo del Nord. Da qui l’uso per indicare i territori della Renania e poi di tutta la Germania. E lei ricorda come quello di usare termini biblici o comunque familiari sia una prassi ben consolidata nell’ebraismo diasporico, nel mondo yiddish e non, per definire dei luoghi. Ha pensato a un perché di questo processo?
Sappiamo che i romani arrivavano nei luoghi da conquistatori e affibbiavano i loro nomi per così dire in punta di spada. Per gli ebrei, che non avevano questo ruolo, la presa di contatto arriva attraverso un altro percorso, quello linguistico. Probabilmente anche perché nel mondo ebraico tutto è così concentrato sulla lingua. E quindi non è strano questo dare nomi presi dai propri testi che portano con sé tutto una una serie di di suggestioni, di assonanze, e in questo modo cerchi di superare l’alterità. Pensiamo alla Polonia: Pol-in, che nella lingua della Bibbia significa “trascorri la notte qui”.

Dalla Polonia alla Russia, lo yiddish varca diversi confini. Qual è il significato dell’essere una “lingua senza frontiere”?
Premesso che il titolo, molto azzeccato, lo ha scelto l’editore facendo riferimento a un discorso di Isaac Bashevis Singer per il Nobel. Effettivamente anche nel libro non si fa che varcare queste frontiere. Ovviamente ciò è proprio dell’ebraismo europeo, però lo yiddish come tale ne varca di più perché di solito varchi la frontiera cambi lingua. Questa è una modalità abbastanza comune. Mentre qua lo yiddish si è mosso ovunque. È addirittura arrivato in Italia, poi dopo è andato nei territori del polacco-lituani. Poi negli Stati Uniti. E arrivato fino all’estremo della Russia, in Birobidzan. Ne ha fatta di strada quindi. E poi mi risuona bene perché, oltre a travalicare le frontiere, ha dei confini laschi anche nel senso che assorbe molto volentieri dalle lingue esterne.

Al di là delle caratterizzazioni folkloristiche, sembra anche avere un’anima ribelle. È così?
Lo dice la studiosa Ruth Wisse: è una lingua profondamente controculturale. E quindi è una lingua di ribellione. È stata storicamente usata per esprimere posizioni contro: contro la leadership rabbinica, contro il sionismo, contro il materialismo del mondo americano. E in quest’ultimo caso può però diventare anche una prigione: penso a Deborah Feldman che lo racconta molto bene nel suo Unorthodox. Lei non associa all’yiddish un momento di emancipazione, ma il segno del proprio asservimento. Ed è interessante perché permette anche di ragionare e superare i cliché legati a questa lingua, che come racconto nel capitolo su Israele, è vista come o la lingua della Shoah o delle barzellette. Una visione estremamente riduttiva per un’impresa culturale così variegata.

A proposito di Stati Uniti, un passaggio significativo per capire l’impatto dei parlanti yiddish nella goldene medine (la terra dell’oro) sono le pagine in cui ricorda il funerale di Sholem Aleichem a New York. Circa centomila persone che nel 1916 riempiono la città per rendere omaggio al grande scrittore. Il segno di un’immigrazione che ha a cuore la letteratura e i libri?
Verso gli Stati Uniti a fine Ottocento, inizio Novecento, ci fu uno spostamento di massa dall’Est Europa. Di gente povera, esattamente com’erano gli italiani, gli irlandesi. Però nel caso ebraico sono quasi tutte persone alfabetizzate. E quindi è normale che si sviluppi una produzione culturale: non hai lo stato autocratico zarista, non hai il regime antisemita polacco, non hai la censura rabbinica. Ma hai una grande libertà espressiva, hai i mezzi per poterla esprimere nei libri, nei giornali, nel cinema e hai un pubblico che ha la consuetudine alla fruizione di testi complessi. Un pubblico che ha come ideale di mandare i figli al college. Quindi è quasi normale che si produca molta cultura in questo mondo, che poi si rivelerà effimero. Quando ci saranno le condizioni per l’assimilazione economico sociale, questa avviene e avviene in primo luogo passando per la lingua.

Da questo punto di vista, c’è chi parla dello yiddish come di una lingua morente o morta. Perché studiarla oggi?
Sulla morte la mia risposta è che le lingue vivono molto più degli uomini, quindi gli uomini tacciano a riguardo. Poi possiamo vedere il successo che continua ad avere la letteratura yiddish grazie alla sua capacità di interpretare la modernità. E se una letteratura ha successo in traduzione vale sicuramente la pena di leggerla in originale, in cui prendi così tanto di più. E poi c’è la bellezza intrinseca dello yiddish, questa mistura estremamente contemporanea di antico e moderno, di cose chiaramente biblico talmudiche con i neologismi, con tre strati linguistici principali…
Ecco, si parla tanto di globalizzazione, parola che ormai ci ha annoiato, ma studiamoci lo yiddish e abbiamo un assaggio di che cosa è una diaspora.

Daniel Reichel, Pagine Ebraiche 2023