Al di là del muro, vite invisibili
Il 19 aprile 1943 un gruppo di duemila soldati e membri delle SS penetrò nel ghetto di Varsavia prima dell’alba. L’obiettivo era quello di completare la deportazione degli ultimi ebrei rimasti in quella grande prigione a cielo aperto: circa 50mila persone. Nel 1942 ve ne erano imprigionate 450mila, il 30 per cento della popolazione totale di Varsavia. A quel numero si deve aggiungere il migliaio di resistenti che per un mese riuscì a respingere i nazisti.
La maggior parte delle tracce di quei mesi terribili furono bruciate e cancellate dagli aguzzini. Furono soprattutto poche testimonianze orali a dare un quadro di cosa fosse la vita nel ghetto. Su di esse si concentra la mostra temporanea realizzata dal museo Polin “Intorno a noi un mare di fuoco. Il destino dei civili ebrei durante l’insurrezione del ghetto di Varsavia”. L’esposizione, pensata in occasione degli ottant’anni della rivolta, si sofferma sulla vita dei cinquantamila “civili”, ovvero i non combattenti. “Contro la disperazione, la solitudine, la fame, la sete e la paura, hanno combattuto ogni singolo giorno, ora, minuto”, spiega la curatrice Zuzanna Schnepf-Kołacz. La loro resistenza silenziosa, sottolinea, “è stata altrettanto importante rispetto a quella di chi prese le armi in mano: rimasero invisibili per molti giorni, si nascosero sottoterra e si rifiutarono di rispettare gli ordini tedeschi”.
La mostra porta in particolare il focus sulle vicende di cinque donne e sette uomini. “Durante l’insurrezione si nascosero in bunker in vari luoghi all’interno dell’area del cosiddetto Ghetto Centrale, dell’officina di Schultz e Többens e dell’officina dei pennellatori. Non si conoscevano tra loro, anche se è difficile dire se siano entrati in contatto in qualche momento dell’inferno della rivolta”, precisa Schnepf-Kołacz. Le esperienze dei protagonisti della mostra sono state diverse. Ma i loro sentimenti e pensieri, prosegue la curatrice, “si sono intersecati e sovrapposti in vari punti, formando un unico racconto di disperazione, impotenza, solitudine, sensazione di abbandono da parte del mondo e consapevolezza che la loro fine si stava avvicinando”.
Tra le voci richiamate quella di Leon Najberg. “Ormai sono diventato di pietra… Il battito del mio cuore si sta lentamente spegnendo. Solo gli occhi fanno la guardia, e la mente annota ogni singola cosa…”, scriveva. “Voglio sopravvivere per raccontarvi ciò che ho visto… Ho visto ebrei bruciati, accoltellati, schiacciati sotto i cingoli dei carri armati, gassati, colpiti con bastoni, dilaniati da proiettili”. L’idea più importante alla base dell’esposizione è di permettere ai visitatori di immergersi nelle voci di tutti e dodici, per trasmettere la loro esperienza. A contribuire a questo scopo le ventuno foto inedite realizzate da Zbigniew Leszek Grzywaczewski. “Le fotografie, anche se imperfette, hanno un valore inestimabile”, afferma Schnepf-Kołacz. Infatti, ricorda, “non sono state scattate dai tedeschi, ma per documentare gli eventi che sono rimasti fuori dalla vista delle persone dall’altra parte del muro”.
La mostra porta i visitatori proprio oltre quel muro. Un attraversamento fatto di Memoria e di consapevolezza.
(Nell’immagine: Zuzanna Schnepf-Kołacz, Ła curatrice della mostra)