Sparecchiando
la tavola del Seder
Prima di Pessach appena trascorso ho condotto un’inchiesta informale. Fra i quattro figli della Haggadah molti nostri giovani dichiarano candidamente di preferire il rashà’ agli altri tre: il “saggio”, il “semplice” e “colui che non sa formulare domande”. A loro volta i traduttori della Haggadah negli ultimi decenni si sono cimentati con un certo imbarazzo nel tentativo di edulcorare il senso del termine in italiano. Chi lo rende con “ribelle”, chi addirittura con “cinico”, chi più semplicemente con “contestatore”. Ma nella letteratura rabbinica rashà’ ha sempre un significato moralmente inequivocabile: denota il “malvagio” in opposizione a tzaddiq. Il linguaggio che egli adopera ne è una prova. Si rivolge ai suoi genitori dicendo: “Cos’è questo culto per voi?” “Per voi e non per lui” commenta sagacemente la Haggadah: il rashà’ si estranea da ciò che egli chiama in tono spregiativo ‘avodah, come se fosse un’ennesima servitù, una fatica priva di senso. Per di più nelle sue parole non c’è traccia del Nome di D., a differenza della domanda del “saggio”.
Se leggiamo il versetto della Torah cui la Haggadah si ispira per questo carattere, il dolore si acuisce. “E sarà qualora i vostri figli vi dichiareranno: ‘cos’è questo culto per voi’” (Shemot 12, 26). I commentatori lo confrontano con gli altri figli e rincarano la dose: il rashà’ non domanda, dichiara. Egli non manifesta dubbi sulla propria posizione. Proprio per questo qui si parla di più figli al plurale anziché di “un figlio” solo, come negli altri casi. Il suo atteggiamento reca solo divisioni all’interno del popolo, perché la ribellione non può essere unitaria. Da ultimo, il rashà’ è l’unico dei figli a proposito del quale la Torah non usa l’avverbio di tempo “domani”. Il mulo è un animale dalla struttura apparentemente forte perché deriva da un incrocio, ma per questa stessa ragione è sterile. Immaginando che il rashà’ a sua volta basi la sua contestazione sul confronto fra l’ebraismo e altre dottrine, facendosi forte della propria vasta cultura e larghezza di vedute, propenderà in definitiva per queste ultime e negherà a se stesso l’opportunità di dar luogo a una nuova generazione di ebrei.
Dobbiamo preoccuparci dell’esito della mia inchiesta? Certamente. Liquidare l’identificazione dei giovani con il rashà’ mediante una semplice battuta significherebbe assumere l’atteggiamento dello struzzo di fronte a dati di un’evidenza lancinante: mentre altrove l’ebraismo si risveglia, conoscendo traguardi forse inediti in quattromila anni di storia, qui da noi i giovani si assimilano, al punto che comunità fino a pochi anni fa illustri in Italia faticano ormai a intravvedere un futuro. Più che di figli malvagi o ribelli, parlerei tendenzialmente di figli ignoranti (ebraicamente). Ma questo non ne diminuisce affatto la responsabilità distruttiva. Anzi!
Di chi è la colpa? Nel brano del rashà’ c’è un’espressione che sovente passa inosservata. Come è noto, la Haggadah propone al genitore/maestro di replicare alla sua contestazione per le rime. Il figlio “malvagio” si estranea dalla famiglia e dalla comunità dicendo: “cos’è questo culto per voi – e non per lui”, rispondigli con il versetto: “per ciò che H. ha fatto a me allorché uscii dall’Egitto – e non a lui”. Ma la replica è introdotta con le parole, apparentemente inessenziali: haqheh et shinnaw, che vengono per lo più tradotte: “fagli digrignare i denti”. La radice q.h.h. è di per sé rarissima nella Bibbia ebraica e ha un altro significato. La ritroviamo in un proverbio popolare citato sia da Yirmeyahu (31, 28-29) che da Yechezqel (18, 2) per contraddirlo. I Profeti affermano infatti che in futuro non si dirà più: “I padri hanno mangiato frutti acerbi e i denti dei figli si sono indeboliti”. Essi confutano la credenza diffusa fra i loro contemporanei che i figli paghino per le colpe dei loro padri. Queste sono paragonate alla consumazione di frutti acerbi che danneggia i denti.
È evidente che il redattore della Haggadah (Magghid) aveva ben presente il contesto originale dell’espressione e si aspettava che il suo lettore colto (ebraicamente) se ne ricordasse. È verosimile che sia qui implicito un invito rivolto al padre del figlio “malvagio” affinché si assuma un’autocritica. Il Talmud (Sanhedrin 27b) afferma che i figli non vengono puniti per le trasgressioni dei padri nella misura in cui desistono dalla via dei loro genitori e fanno Teshuvah, ma se seguitano a comportarsi male ricevono punizione doppia: quella dovuta ai padri in aggiunta alla loro. La riflessione riguarda dunque entrambe le generazioni. Di fronte a figli e figlie che scelgono la via dell’assimilazione tocca in primis a padri e madri interrogarsi sulle ragioni del fenomeno. Si è davvero fatto di tutto per la loro educazione e istruzione ebraica? Terminata la disamina dei quattro figli, il Magghid stesso conclude rivolgendosi direttamente al genitore: hai l’obbligo di rinarrare ai tuoi figli l’uscita dall’Egitto “nell’ora in cui la Matzah e il Maròr sono apparecchiati davanti a te” – prima che davanti a loro. Non c’è miglior trasmissione di valori che l’esempio dato di persona.
Rav Alberto Moshe Somekh