“Varsavia e la resistenza silenziosa, una lezione per il presente”
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La storia dei cinquantamila civili che vivevano nel Ghetto di Varsavia nell’aprile del 1943 è poco raccontata. Molto, comprensibilmente, si è detto dell’eroismo del migliaio di combattenti male armati che per quasi un mese riuscirono a tenere testa all’esercito nazista. Poco invece si sa delle vite delle decine di migliaia di uomini, donne e bambini, che fecero un altro tipo di resistenza. “Non erano combattenti, non appartenevano alle organizzazioni clandestine come la ŻOB (l’Organizzazione di Combattimento Ebraica) o la ŻZW (l’Unione Militare Ebraica). Ma comunque si opposero ai nazisti e al loro sistema di deportazione e uccisioni. Invece di presentarsi al trasporto, si nascosero. La loro resistenza silenziosa non fu meno importante di quella armi in mano. Non c’è contraddizione. Sono la storia dello stesso destino ebraico”.
Per questo, spiega a Pagine Ebraiche Zuzanna Schnepf-Kołacz, il museo dell’ebraismo polacco Polin ha voluto dedicare ai 50mila civili la mostra per l’ottantesimo anniversario dell’insurrezione del Ghetto. “Intorno a noi un mare di fuoco”, il titolo dell’esposizione curata da Schnepf-Kołacz, che spiega come l’anniversario rappresenti “un punto di partenza non solo per commemorare i morti nel ghetto, ma anche per ascoltare le storie dei sopravvissuti: il nostro programma per l’anno 2023 ci consentirà di acquisire una prospettiva critica sulla storia e di guardare al presente e al futuro, come ci ha incoraggiato a fare Marian Turski il 27 gennaio 2020 quando ci ha ricordato il cosiddetto undicesimo comandamento, un messaggio del suo amico Roman Kent: ‘Non essere indifferente’. Parole che riteniamo particolarmente significative e attuali, oltre un anno dopo l’invasione russa dell’Ucraina, con tanti rifugiati in cerca di un posto sicuro in Polonia”.
Da dove nasce l’idea della mostra?
Lo spunto è della professoressa Barbara Engelking per raccontare una storia sconosciuta al grande pubblico: quella appunto dei civili nascosti nei bunker sotto terra, circondati dal fuoco appiccato, casa per casa, dai nazisti. Abbiamo scelto dodici storie emblematiche, basate su testimonianze scritte durante la guerra o subito dopo. Era importante per me e la professoressa Engelking che la narrazione nei racconti non fosse in qualche modo distorta dalla memoria o da altre narrazioni nate dopo la guerra. I dodici protagonisti sono cinque donne e sette uomini. Non si conoscevano, anche se è difficile dire se non si siano incontrati in qualche momento del loro cammino attraverso l’inferno della rivolta. A volte si nascondevano in una strada vicina, nella casa accanto. Erano giovani. A parte l’undicenne Krystyna Budnicka, quasi tutti avevano vent’anni. Il più anziano, Symcha Binem Motyl, aveva 34 anni. Cinque non sono sopravvissuti alla guerra; non sappiamo come siano morti. Le esperienze dei protagonisti e delle protagoniste della mostra sono state diverse, ma i sentimenti e i pensieri si sono intersecati e sovrapposti in molti punti, creando un’unica storia di disperazione, impotenza, solitudine, abbandono da parte del mondo e consapevolezza che la fine è vicina.
Come avete fatto a ricostruire le storie di queste persone?
Siamo partiti come dicevo dalle testimonianze scritte, per poi cercare documenti, fotografie, capire chi fosse sopravvissuto alla Shoah, e, nel caso, quale fosse stato il suo destino dopo la guerra. Di alcune persone non conosciamo neanche il nome, non abbiamo un volto. Le nostre ricerche in ogni caso hanno coinvolto gli archivi di Varsavia, in Israele e Stati Uniti. Ma la documentazione più interessante è arrivata dalle famiglie che siamo riusciti a contattare. Alcuni figli e nipoti dei protagonisti della mostra sono venuti all’inaugurazione.
Come avete immaginato il percorso espositivo?
Durante la visita si seguono le voci dei dodici testimoni. Sono loro le nostre guide nel ghetto attraverso i loro sentimenti, pensieri, esperienze. È una prospettiva molto personale, vicina alle persone e alle loro emozioni.
C’è poi uno spazio dedicato all’esperienza di stare nel bunker. Mostriamo come si svolgeva la vita quotidiana nel bunker, le condizioni in cui si viveva, lo spazio da condividere, come si affrontavano le esigenze quotidiane. E cerchiamo di restituire l’atmosfera: l’oscurità, il calore delle pareti infuocate, la mancanza di spazio e di aria, i suoni che spesso erano l’unico modo per ottenere informazioni su ciò che accadeva in superficie. Raccontiamo delle relazioni tra la gente nei bunker. Da un lato, i conflitti, la paura, i momenti di panico, la mancanza di speranza, il senso di abbandono e l’indifferenza del mondo nei confronti della loro sorte e la consapevolezza di una vita perduta; dall’altro, il bisogno di amore, di vicinanza e di solidarietà, l’assunzione di responsabilità per gli altri.
Il desiderio di vivere, di salvare se stessi e i propri cari, di creare una comunità i cui membri si sostengono e si proteggono a vicenda, è anche un modo per resistere al male.
C’è una testimonianza in particolare che pensate racconti lo spirito della mostra?
Ogni testimonianza è unica ed eccezionale. Non sono in grado di sceglierne una. Per esempio la storia di Stella (Stefania) Fidelseid. Era nel ghetto durante la rivolta completamente da sola. Non aveva nessuno. I suoi genitori e la sorella minore furono deportati al campo di sterminio di Treblinka durante la Grande Operazione nel Ghetto di Varsavia nel 1942. Nei primi giorni dell’insurrezione, suo marito, medico, fu prelevato dall’infermeria e trasportato al campo di Majdanek.
La sua esperienza durante la rivolta assomiglia al vagabondaggio di Ulisse in cerca di un riparo, anche solo per qualche ora, per un giorno. Passava di nascosto da un bunker all’altro, si sdraiava sotto una lamiera o si nascondeva in un armadio di un appartamento abbandonato per aspettare la prossima “azione”. Alla fine della rivolta, Stefania si unì a un gruppo di persone che non aveva mai incontrato prima. Per mesi, passati sotto le macerie del ghetto cancellato, lottarono contro la fame, la sete, le malattie e la morte. Nel novembre 1943, Stefania partorì un figlio nel bunker. Dopo pochi giorni, il bambino morì di fame. La vita tra le rovine del ghetto continuò fino al dicembre 1943. L’intero gruppo saltò il muro per raggiungere il lato “ariano”. Stefania è sopravvissuta e si è ricostruita una vita dopo la guerra. È partita per Israele e dopo per il Brasile dove ha sposato il suo secondo marito. Era una donna molto bella, con un sorriso smagliante su quasi ogni fotografia che sua figlia ci ha mandato da San Paolo.
Un altra testimonianza molto importante per me è un diario scritto giorno per giorno, ora dopo ora direttamente nel bunker durante la Rivolta. Non conosciamo il nome completo dell’autrice. “Marylka” – è il nome che compare solo una volta nel diario. Marylka si nascose insieme ad altri abitanti della casa in un bunker. Due giorni dopo i tedeschi scoprirono un rifugio nelle vicinanze, uccisero alcuni dei suoi abitanti sul posto e portarono via gli altri. Il 27 aprile, Marylka notò che tutt’intorno c’erano macerie carbonizzate e cadaveri. Aveva paura di uscire. Assieme agli altri si sedette ad ascoltare i rumori provenienti dall’esterno, sperando che fosse finita. È qui che il diario si interrompe. Quel giorno furono scoperti diversi bunker nelle vicinanze. Quello di Marylka probabilmente fu tra quelli. Non sappiamo niente di più del suo destino. Per me la storia e la testimonianza di Marylka riflettono la sorte della maggior parte dei 50mila civili del ghetto durante la Rivolta. Non ci sono nomi, non ci sono volti né storie da poter commemorare.
Quali concetti, riflessioni, domande volete che i visitatori portino con sé al termine della visita di questa mostra?
La mostra, pur trattando di un’epoca e di eventi storici, toccherà dilemmi, atteggiamenti e sentimenti universali e solleverà domande importanti per il mondo di oggi. Come ci comportiamo di fronte alla morte? Qual è il confine tra la lotta per la vita e la rinuncia? Che cosa si prova quando si viene gettati fuori dalla società, circondati dall’indifferenza o dal disprezzo, “annegando”, come hanno scritto di sé molti eroi ed eroine, per i quali non c’è salvezza? Come possiamo opporci al male, resistere? Cos’è l’indifferenza e a cosa porta? Ci vergogniamo di essere testimoni della sofferenza degli altri?
Concludiamo la mostra con le parole “Non essere indifferente”. Raccontiamo questa storia pensando anche al mondo di oggi: persone le cui case bruciano, che devono fuggire verso un destino sconosciuto in cerca di aiuto per sé e per i propri cari, che si sentono sole, impotenti e abbandonate. Non restiamo indifferenti al loro destino.
Daniel Reichel