“Degenerata”, l’arte non ha pace

La storia è, in realtà, molto semplice. Il Kunstmuseum di Basilea ospita una delle collezioni più prestigiose al mondo di opere del Modernismo, ma si tratta di una collezione che è nata relativamente tardi: nell’estate del 1939, poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, Georg Schmidt, all’epoca direttore del museo, riuscì ad acquisire numerosi capolavori d’avanguardia.
Opere considerate “degenerate” dalla politica culturale nazista e rimosse dai musei tedeschi. Raccontare questa vicenda la mostra intitolata “Castaway modernism” ha esposto le opere e tutta la documentazione storica delle acquisizioni è stata una scelta affascinante di trasparenza e coraggio.
Il Ministero della Propaganda del Terzo Reich riteneva a ragione che una parte di tali opere avrebbe trovato facilmente degli acquirenti all’estero, così quelle ritenute “sfruttabili a livello internazionale” vennero fatte arrivate sul mercato dell’arte. Una storia semplice, ma per nulla banale, dalle implicazioni anche etiche complesse, che racconta un periodo difficilissimo anche per l’arte, e per coloro che se ne occupavano. Le scelte da compiere erano dilanianti: acquistare opere d’arte dai nazisti significava in pratica finanziarli. Ma era anche l’unico modo per salvare i prodotti culturali di un’epoca. La violenza del regime nazista ha portato spesso alla distruzione anche delle opere d’arte, quando non erano “sfruttabili”, e vendute all’estero, cosa che getta ancora oggi un’ombra pesante sulle collezioni in tutto il mondo. In Germania tra il 1933 e il 1945 l’arte che non si adattava alla visione del mondo dei nazisti per esempio espressionismo, dadaismo, surrealismo, cubismo e fauvismo veniva definita “degenerata”. Nei musei tedeschi più di ventunmila oggetti furono prima sequestrati e quando entrò in vigore la “Legge sulla confisca dei prodotti d’arte degenerata” le autorità ebbero mano libera. Venne redatto un inventario e circa ottocento dipinti e sculture e tremilacinquecento opere su carta vennero classificate come “commerciabili a livello internazionale”, adatte alla vendita all’estero, con l’obiettivo di raccogliere fondi in valute preziose. In realtà ne furono vendute quasi il doppio, prima in un’asta organizzata a Lucerna, poi sul mercato internazionale, grazie ad alcuni mercanti d’arte. Buona parte di ciò che venne ritenuto “invendibile” invece fu bruciato, a Berlino, il 20 marzo 1939. Per coloro che portano avanti il lavoro di ricostruzione della provenienza delle opere d’arte “degenerate” il saccheggio avvenuto nell’Europa dominata dai nazisti rappresenta una delle sfide più complesse. In una conferenza tenutasi a Washington nel 1998, quarantaquattro paesi hanno adottato alcune regole di base, note come “Princìpi di Washington”. Lo scopo è aiutare a risolvere le questioni ancora aperte relative a opere d’arte saccheggiate dai nazisti: i musei sono invitati a rivedere le proprie collezioni, colmare le lacune nelle storie delle singole opere e fare di tutto per identificare eventuali passaggi di proprietà illeciti.
Quando necessario devono avviare quanto prima il processo di restituzione ai legittimi proprietari o, in alternativa, cercare una soluzione “giusta ed equa”. È questo l’obiettivo dei “Washington Principles” e nella soluzione giusta ed equa rientra l’idea di un percorso personalizzato e differente tra ogni proprietario originale e chi detiene oggi l’opera in questione. Dichiarare che qualsiasi accordo deve partire dalle specifiche circostanze individuali significa affermare che la restituzione di un’opera a coloro che ne rivendicano il possesso non è necessariamente l’unica risposta possibile. Ma deve essere un accordo, appunto. Un’istituzione può, per esempio, prima restituire e poi (ri)acquistare un’opera, oppure offrire una compensazione economica, o compiere atti simbolici, e raccontare la storia dei proprietari originali insieme a ciò che viene esposto. Percorsi e storie che sono in sé appassionanti, come lo sono i documenti che raccontano le storie delle aste organizzate dai nazisti e le storie di coloro che si trovarono nella condizione di scegliere cosa acquistare e cosa abbandonare al proprio destino.

Ada Treves, Pagine Ebraiche