Ingeborg, Max e gli altri

“È l’estate più bella della mia vita e, dovessi campare cent’anni, queste resteranno per me la primavera e l’estate più belle”.
Così nel suo diario una Ingeborg Bachmann appena diciottenne alla capitolazione del Terzo Reich. La scrittrice è allora una sconosciuta. Ha appena cominciato a farsi corteggiare nell’estremo lembo meridionale di un’Austria uscita esangue dal conflitto da un militare statunitense delle forze di occupazione. Il primo ragazzo è ebreo. Nella sua ricerca della libertà altri seguiranno, e la relazione più immensa, per una donna che di ogni amore volle fare un capitolo di grande letteratura, sarà il legame con la maggiore voce ebraica nella poesia del Novecento, il sopravvissuto Paul Celan. Il film che le dedica Margarethe von Trotta, di questi ardori mette al centro soprattutto la relazione fra la scrittrice e poetessa austriaca e il romanziere svizzero Max Frisch. Lo sfondo di una passione da cui è scaturito l’epistolario considerato a sole poche settimane dalla tardiva pubblicazione dello scorso inverno uno dei grandi classici della lettera tedesca contemporanea è Roma. La città incantata di chi ha il privilegio di ammirarla dall’esterno. Si rimescolano le carte liberi dalle cronologie e si ricompongono pulsioni e passioni di una scrittrice che Roma la amò davvero. In fuga dai rigori di Zurigo, in lotta contro le strettoie di una relazione con lo scrittore svizzero che amava la coerenza e la trasparenza prima ancora che la libertà. Due giganti della letteratura che fanno fatica a riconoscersi nella loro reciproca grandezza. E le amicizie parallele della scrittrice per deviare alla ricerca di una costante alternativa. Ingeborg si concede e si fa adorare dai patriarchi della poesia, come Giuseppe Ungaretti, dai grandi della musica come Hans Werner Henze, dai giovanissimi letterati irrequieti come Adolf Opel. A Max che le chiede come possa costantemente serbare un segreto risponde semplicemente che non vuole lui perda la curiosità che le è dovuta. Struggente e vertiginoso, il film della von Trotta ci ricorda come amore e letteratura al cinema possono essere le declinazioni delle esistenze senza resa.

gv