Anniversari rabbinici
Il 24 aprile 1823 nasceva a Livorno rav Elia Benamozegh, forse l’ultimo grande rabbino-filosofo della storia ebraica d’Italia (all’epoca non ancora politicamente unificata), di certo il più conosciuto rabbino italiano di epoca moderna a livello internazionale. A segnare il XIX secolo gli stanno accanto soltanto rav Itzchaq Shmuel Reggio (1784-1855), noto come Yashar di Gorizia, e Shmuel David Luzzatto (1800-1865), a sua volta conosciuto come Shadal di Padova, sebbene nativo di Trieste. Mentre costoro condivisero, pur con gradazioni diverse, lo spirito della Wissenschaft des Judentums, quel gruppo di studiosi ashkenaziti che approcciavano le fonti ebraiche con metodi storico-filologici, rav Benamozegh, di origini marocchine e pienamente inserito nel mondo sefardita, perseguì una sua personale via ebraica alla modernità, guardando a Parigi più che a Berlino e sentendosi del tutto in sintonia con lo ‘spirito dei tempi’ ovvero con quella filosofia ottimista del progresso della storia che combinava o si sforzava di combinare la fede religiosa con l’avanzare della scienza e l’univeralismo della filosofia, e che sposava Ernest Renan con Charles Darwin. Rav Benamozegh conciliava persino i mondi opposti di Schopenhauer e Dante con lo Zohar e tutta la qabbalà la quale, per il rabbino della città labronica, rappresenta il ‘sistema metafisico’ del giudaismo, così come l’halakhà rappresenta il ‘sistema etico-giuridico’. Solo stando insieme, halakhà e qabbalà sono ‘il giudaismo’, una religione la cui moralità universale e razionale si diffuse nel mondo, pur tra alcuni errori dottrinali, attraverso le due religioni che dall’ebraismo erano derivate, il cristianesimo e l’islàm.
Rav Benamozegh, a suo modo, fu un pensatore sistematico, un vero “filosofo della religione”, quella ebraica ma non solo. Il suo nome è legato alla riscoperta e al rilancio nel corso del Novecento della dottrina talmudica dei precetti noachidi (rivolti ai figli di Noè, nel numero simbolico di sette), intesa come una religione monoteista ed etica universale. La troviamo esposta nel volume Israel et l’humanitè, apparso postumo in francese nel 1914, curato dal suo discepolo non ebreo Aimé Palliere (1868-1949), ma già in nuce profilata nell’introduzione (dal titolo “Israele e umanità”) a questo progetto editoriale dato alle stampe dallo stesso Benamozegh, quasi in anteprima, nel 1885. Quest’introduzione e un altro testo emblematico, “Il mio credo”, pubblicato nel 1877 in calce a un manuale che il rav intitolò Teologia dogmatica e apologetica, sono ora disponibili in un volume edito da Castelvecchi, a cura di Marco Cassuto Morselli (pp. 104, euro13.50). Si tratta di due testi essenziali per chi voglia conoscere il pensiero di questo originale maestro di Israele, il quale affrontò temi di storia delle religioni (come gli esseni e le origini del cristianesimo) e dottrine ebraiche (come emanazionismo e ghilgul, per quanto oggi desuete) senza nulla concedere o compromettere sul piano della tradizionale prassi ebraica più ortodossa. Non è un caso che nel ‘suo’ collegio rabbinico si siano formati maestri del calibro di Alfredo Toaff, Elio Toaff e Dante Lattes.
Propio nel 1823, sempre a Livorno, veniva stampato il terzo e conclusivo volume delle she’elot u-teshuvot – con il titolo Zera‘ emet ossia “Seme/discendenza di verità”) – di un altro eminente maestro della tradizione rabbinica italiana, Laudadio Sacerdote, il cui nome ebraico era Ishmael ben Avraham Itzchaq HaCohen. Era nato esattamente 300 anni fa, nel 1723, e morì nel 1811 a Modena, la città in cui fu attivo per oltre trent’anni. Il Chidà ossia Chayim Joseph David Azulai (1724-1806, che dunque gli fu contemporaneo) lo elogia come il più autorevole rabbino italiano del suo tempo.
Meno noto di rav Benamozegh, tuttavia Laudadio Sacerdote rappresenta al meglio l’anello di congiunzione tra la grande tradizione ebraica italiana tardo-rinascimentale (come Sforno e de’ Rossi, allungandosi fino al XVII-XVIIl secolo con Isacco Lampronti) e quella nuova generazione che, con i tre nomi visti sopra, inaugurano la stagione del dialogo tra ebraismo tradizionale e modernità europea. Autore di piyutim (poemi liturgici) e di un esteso commento alle parashot della Torà, oltre che riconosciuto poseq o decisore halakhico nei tre volumi dei suoi responsa, anche questo maestro diede lustro alla vita ebraica della penisola italica, in piena età dei ghetti, e il tricentenario della sua nascita andrebbe celebrato accanto al bicentenario del rabbino livornese. A quest’ultimo la Comunità ebraica di Livorno dedicherà un convegno ai primi di novembre, sotto la regia di Alessandro Guetta, storico del pensiero ebraico italiano. Scriveva Elia Benamozegh: “La religione, come la filosofia, vuole rigore dialettico, abito di astrazione, squisita imparzialità, un raziocinare ad oltranza, sans peur et sans reproche… in quanto è verissimo quel che disse otto secoli fa rabbi Bachyà Ibn Paquda: credente vero non può darsi che non sia profeta e filosofo”.
Massimo Giuliani