Segnalibro – Briciole di pane
Negli anni Ottanta la Colombia visse una drammatica stagione di violenze e sequestri. Una piaga oggi meno intensa di un tempo, ma con la quale il Paese non ha smesso di confrontarsi. Anche attraverso l’intelligenza e gli stimoli portati dalla letteratura di qualità.
Ne è un esempio “Briciole di pane” (Le Lettere), romanzo dello scrittore e accademico Azriel Bibliowicz. Presentato a Roma in occasione dell’ultimo Giorno della Memoria, racconta la storia di un rapimento con una sfumatura d’angoscia (e riflessione) in più: nelle mani di alcuni criminali non meglio precisati c’è infatti l’ebreo Josué Goldstein, un uomo di origine est-europea che ha visto la prima moglie e la figlia divorate dalla Shoah e che al fianco di Leah, sopravvissuta a sua volta ad Auschwitz, ha scelto di ricostruirsi un’esistenza lontano migliaia di chilometri da un continente diventato ormai estraneo e ostile. Nato nella città di Czernowitz, in principio rumena e in seguito ucraina, durante la guerra è stato in un “campo di lavoro” siberiano. Dall’unione con Leah e da quel nuovo progetto di vita nascerà un figlio, Samuel, che nel libro incontriamo fin dalle prime pagine per via del penoso fardello della “trattativa” in cui è immerso senza soluzione di continuità.
Josué non appare mai direttamente, nessun dialogo lo vede protagonista. Eppure è sempre lì. Una presenza/assenza da cui scaturisce una trama ricca di fascino e complessità. Diversi sono infatti i punti di vista, le prospettive e le speranze riposte dai diversi soggetti che entrano in scena, mentre davanti ai nostri occhi di lettori scorrono le meraviglie della straordinaria casa/rifugio che Josué ha fatto costruire per sé e per i propri cari. Una vera e propria Wunderkammer, ideata da questo apolide d’Europa “con l’intenzione di dimostrare che l’umanità, malgrado tutte le violenze e le nefandezze della storia, ha lasciato un’importante eredità che merita di essere recuperata”. L’impegno cui Josué aveva scelto di consacrare la propria esistenza, consapevole della necessità di un passaggio di testimone.
Riferisce l’autore, guidandoci nel suo mondo: “Josué decise che l’unico modo per recuperare la sua dignità sarebbe stato l’isolamento e la costruzione di un suo mondo. Non c’era nessuno con cui discutere. Per questo avrebbe fabbricato una realtà in cui nessuno sarebbe stato in grado di penetrare né di conferirgli ruoli che non voleva interpretare. Avrebbe creato un suo mondo in cui lui avrebbe definito i ruoli e avrebbe dominato le scene…”.
È in quel contesto che matura l’Almanacco delle rotture, iniziativa “con cui vuole commemorare le numerose stragi che la storia riduce o perfino nasconde” (così Martha L. Canfield, nella sua prefazione al romanzo). Una fratellanza di memorie che include, tra gli altri, eventi come i massacri compiuti da Stalin, il genocidio del popolo armeno, quello del popolo rom, le stesse vittime della violenza in Colombia.
Bibliowicz, ricorda Canfield, è figlio di un ebreo polacco costretto e emigrare che trovò ospitalità nella Colombia degli anni ’30. Così la memoria di suo padre si è trasmessa a lui, “che non può evitare di associarla agli orrori causati dalla violenza nel paese dove è nato e dove vive”. Già nel suo primo romanzo, El rumor del astracán (1991), aveva infatti intrecciato l’orrore dei pogrom dell’Europa Centrale con gli spostamenti forzati dei contadini colombiani.
Nel presentare il volume a gennaio, l’ambasciatrice Ligia Margarita Quessep aveva evidenziato “l’importanza della responsabilità che tutti noi abbiamo, attraverso le generazioni, di raccontare e far capire che la storia deve essere conosciuta”. Bibliowicz tornerà presto in Italia, per un nuovo ciclo di presentazioni.