La Scuola di Parigi, tra arte e destino

Era ipnotica la cartina proiettata sul muro all’ingresso della mostra “Paris Magnétique. 1905–1940” da poco conclusasi allo Jüdische Museum Berlin, il Museo ebraico di Berlino. L’immagine si trasformava, si modificava, seguendo il trascorrere degli anni in un movimento vertiginoso. Grandi frecce mostravano gli spostamenti dei tanti artisti ebrei che fecero parte della Scuola di Parigi, che uno dopo l’altro lasciavano i luoghi d’origine. Tanti, tantissimi, in una sequenza che pare accelerare col trascorrere degli anni.
All’inizio del XX secolo la città era una calamita per gli artisti europei. Molti di loro, e in particolare gli artisti ebrei dell’Est Europa, fuggivano dalle persecuzioni e dalla povertà, emigravano in cerca di speranze, e della possibilità di un nuovo inizio. La scena artistica parigina così divenne via via sempre più vivace, capace non solo di prosperare, ma forte abbastanza per dare vita a un ricchissimo scambio intellettuale intriso di quel cosmopolitismo che fu una delle ragioni alla base del successo dell’École de Paris, epitome della modernità europea.
Si tratta della prima mostra che il grande museo berlinese ha dedicato all’argomento, in dichiarata continuità con “Chagall, Modigliani, Soutine… Paris pour école, 1905-1940”, l’esposizione organizzata nel 2021 dal Musée d’Art et d’Histoire du Judaïsme di Parigi. Al MAHJ si raccoglievano più di centotrenta opere e numerosi documenti inediti, uno sguardo attento su quella generazione di artisti che tra il 1900 e il 1914 erano giunti a Parigi dalle maggiori città europee, ma anche dall’impero russo, a cercare l’emancipazione artistica, sociale e religiosa. La nuova mostra, a Berlino, esponeva circa centoventi capolavori, suddivisi in dieci sezioni, una vera e propria mappatura di come le prospettive dei migranti, pur se spesso emarginate dall’avanguardia parigina, abbiano influenzato l’odierna comprensione del modernismo. Nelle sale si passava da Marc Chagall a Chana Orloff, da Amedeo Modigliani alle opere di Sonia Delaunay e Jacques Lipchitz, accompagnate da documenti contemporanei, fotografie, estratti di giornali e filmati, in un insieme utile ad approfondire il contesto storico.
Le biografie degli artisti si accompagnavano alla descrizione delle loro reti sociali, con un’attenzione speciale ai luoghi in cui si incontravano, da Montparnasse alla residenza degli artisti “La Ruche” (l’alveare), a raccontare in una maniera vivida come una diversità abbia saputo farsi scuola. Non in senso letterale, non è stata né una scuola d’arte né un vero e proprio movimento stilistico: il termine, coniato dal giornalista e critico d’arte André Warnod nel 1925, si riferisce a quella scena artistica che non solo era per sua natura cosmopolita ma resisteva strenuamente alle voci nazionaliste e xenofobe. Che provenissero da Polonia, Ucraina e Bielorussia, o da Germania e Italia, a Parigi si erano ritrovati per la libertà che vi si poteva ancora trovare. La condivisione degli ideali artistici era, in un certo senso, quasi secondaria. Il tratto comune era più spesso la fuga da misere condizioni di vita, da quella situazione di emarginazione e discriminazione che erano poi culminate nei pogrom. Erano grandi artisti, capaci di parlarsi, discutere, e alla fine pur nelle grandi differenze litigare ferocemente e poi comunque fare rete: non condividevano uno stile quanto una storia comune, un ideale e, per alcuni, un destino.

Ada Treves

(Nelle immagini: “L’Atelier”, di Marc Chagall, opera del 1911; “Ritratto di Dédie”, di Amedeo Modigliani, del 1918)