Architetti e il 1938, vite da riscoprire

Il 15 marzo 1944 l’architetto Alessandro Rimini veniva arrestato mentre si trovata sul cantiere del Cinema Colosseo. Uno dei tanti che continuava a sovrintendere. Aveva scelto di continuare, sotto falso nome, a lavorare. Questo nonostante per un ebreo fosse vietato a causa delle leggi razziste e poi soprattutto pericoloso alla luce delle persecuzioni. Rimini scelse in ogni caso di verificare i lavori del Colosseo, danneggiato da uno dei numerosi bombardamenti che dalla fine del ‘42 colpirono la città. Del resto il cinema era uno dei suoi progetti, inaugurato nel 1927. Mentre controllava i danni di una bomba incendiaria le SS lo arrestarono su delazione di un collega. All’architetto non bastò essere stato un eroe della Grande Guerra per essere considerato un italiano da onorare. Come lui altri colleghi ebrei furono segnati da destini simili: espulsi dall’ordine degli architetti e perseguitati per la loro identità ebraica. Figure come Daniele Calabi, Angelo Di Castro, Romeo Di Castro, Enrico De Angeli, Vito Latis, Gino Levi Montalcini, Ernesto Nathan Rogers, Nina Livia Viterbo. Alla loro memoria e al loro lavoro sono dedicate alcune iniziative portate avanti nell’arco del progetto “Architecture and Remembrance. The discrimination of architects in nazifascist regimes” che vede coinvolti gli Ordini degli architetti di Milano, Bologna, Roma, Ferrara, insieme a Fondazione Cdec, Fondazione Maxxi e all’Università Comenius di Bratislava. Primo appuntamento, questa sera al Cinema Arlecchino di Milano con un incontro dedicato alla figura di Alessandro Rimini e la proiezione di un documentario, firmato dal regista Davide Rizzo, a lui dedicato. Il 17 maggio invece al Maxxi di Roma sarà inaugurata la mostra “Il tempo ritrovato. Storie di architetti ebrei” e per l’occasione sarà presentato il progetto “Architecture and Remembrance”. Due gli obiettivi di quest’ultimo,  spiegava il direttore della Fondazione Cdec Gadi Luzzatto Voghera: “informare e sensibilizzare la comunità professionale e il pubblico in generale sulle discriminazioni subite dagli architetti ebrei durante i regimi nazifascisti. E fare memoria delle discriminazioni e dell’antisemitismo che hanno portato all’esclusione di molti architetti dai loro campi professionali, come strumento di vita per prevenire l’intolleranza futura e per promuovere il dialogo intorno alle loro storie, decostruendo il discorso che porta all’intolleranza”.
Tra le figure ricordate c’è dunque il citato Alessandro Rimini, a cui di recente Milano ha dedicato una targa al Teatro Colosseo. Una storia la sua di grande coraggio e resilienza. Nato a Palermo nel 1898 e di famiglia ebraica veneziana, il ventenne Rimini nel 1917 è costretto a lasciare gli studi all’Accademia delle Belle Arti di Venezia e arruolarsi. Preso durante una manifestazione, viene spedito a combattere al fronte. In autunno è a Caporetto. Con l’esercito italiano in fuga, si nasconde in una trincea, sotto un cumulo di scarpe di soldati morti, il racconto della figlia. Non basterà a salvarlo dalla prigionia. I tedeschi lo catturano e lo mandano ai lavori forzati in una miniera di carbone nel nord della Germania. “Fu durissimo. – ha raccontato la figlia Liliana a Dario Ronzoni de Linkiesta – Un episodio che raccontava spesso era questo: durante la marcia verso la Germania, incolonnato con gli altri soldati, vide per terra una radice. Si chinò per raccoglierla e si trovò puntato, accanto a lui, un fucile. Era un soldato tedesco, che gliela rubò”. Nonostante le sofferenze patite, Rimini resiste e anche in quel frangente esprime la sua arte: disegna ritratti dei compagni di prigionia. Una passione, quella per il disegno dei volti, che lo accompagnerà tutta la vita. Quello dell’amatissima moglie Olga, per esempio, si trova in diversi edifici da lui progettati. Un modo di firmare originale.
Dal campo di prigionia tedesco il giovane disegnatore riesce a scappare. Tornato in Italia completa gli studi e nel 1921 diventa professore di disegno architettonico a Venezia. Quattro anni dopo si sposta a Milano, dove inizia subito a farsi un nome. Progetta il cinema Colosseo e, racconta Milano Arte, “quando lo inaugurano nel 1927, la galleria a sbalzo, in cemento armato, è così innovativa che gli ospiti si rifiutano di entrarci fino a quando non salgono i proprietari, il costruttore e il padre, con tutte le famiglie”. La sua carriera prosegue di progetto in progetto. Nel 1935 vince il bando per la realizzazione della sede dell’azienda Snia: nasce così la Torre Snia o Torre San Babila. Alto quasi 60 metri, 15 piani, l’edificio è completato nel 1937 e suscita stupore e ammirazione. Viene disposta una deroga al regolamento comunale, nessuno aveva costruito un edificio così alto dai tempi della guglia del Duomo. È il primo grattacielo della città. Rubanuvole, il soprannome che conferiscono all’opera i giornali dell’epoca. Una consacrazione per Rimini, la cui carriera si scontra però con il fascismo: le leggi razziste del ’38 lo costringono a nascondere il suo nome dai progetti. Lui continua a lavorare e recarsi in cantiere, mentre altri costruiscono la propria fama sulle sue spalle. Qualcuno lo tradisce. Le SS naziste lo sorprendono nel 1944 mentre si trova nel cantiere dell’Hotel Diana della centralissima Porta Venezia. Torturato, non dice una parola su dove si trovi la sua famiglia. Da San Vittore viene tradotto a Carpi. Ultima destinazione, Auschwitz. E qui, un nuovo atto di coraggio, raccontato dalla figlia in una lettera inviata ai giornali nel 2016. “Il treno fece una sosta a Verona e papà riuscì a farsi accompagnare ad un gabinetto con l’intenzione di gettarsi dalla finestra, ma era al terzo piano e c’erano grate. Al ritorno si accorse che il suo vagone era il primo dopo quello di scorta; allora con grande coraggio passò dal suo nel vagone delle SS e spintonando i tedeschi disse ‘Italienische polizei’ e, uscendo dalla testata del treno, prese il cappello a un ferroviere, attraversò i binari e si nascose sotto un treno vicino aspettando la notte per uscire. Sembra una storia impossibile, ma mio papà è riuscito a fuggire per la seconda volta da una morte certa. Questo – conclude Liliana Rimini – è solo un piccolo ritaglio di una storia di coraggio e di grande volontà che vorrei fosse di esempio a chi si lascia sopraffare dallo sconforto e dalle difficoltà”.